Si è svolto a Palmanova (UD) l’8 febbraio scorso il seminario “Eliminare la contenzione meccanica, farmacologica ed ambientale si può, si deve“, voluto e organizzato dalle segreterie dei tre sindacati confederati (CGIL, CISL E UIL) i cui rappresentanti regionali hanno aperto il lavoro seminariale dichiarando l’intenzione di sensibilizzare sul tema non solo il mondo politico, di indurre a una più profonda riflessione non solo gli addetti ailavori, ma quella di promuovere, costruire, e divulgare nelle comunità regionali, nella società civile una cultura diversa ed alternativa a quella che prevede un uso giustificato della contenzione. Dopo aver sottolineato quanto lavoro è stato fatto nella nostra regione nella salute mentale in seguito alla rivoluzione basagliana, il focus si è decisamente spostato in ambito geriatrico.
I relatori che sono intervenuti, ognuno con le proprie competenze professionali, hanno apportato un contributo interessante, ma soprattutto utile a delineare i confini, non solo teorici, di definizione giuridica, medica, psicologica, ma anche più attinenti ai dati concreti che sono emersi dalle ricerche e dalle registrazioni osservative nelle singole realtà, ospedali e residenze per anziani.
In prevalenza sono emersi tre orientamenti:
1. mai più contenzione!
2. Qualche volta non se ne può fare a meno!
3. È bene distinguere tra ausilio e contenzione.
Il primo è stato quello affermato da gran parte dei relatori, soprattutto dalla dirigente infermieristica Livia Bicego, che ha efficacemente esposto i danni arrecati alla persona contenuta, che posso portare perfino alla morte. In realtà, come evidenziato nel suo intervento dallo Psicologo Franco Perazza, danni della contenzione si riscontrano spesso anche nelle persone che la praticano, ossia negli operatori. Essa, quindi, è una pratica disumanizzante, sia per la vittima che per il “carnefice”: il primo perché diventa oggetto da gestire, il secondo perché da figura d’aiuto si trasforma, suo malgrado, in un “secondino-torturatore”. Infatti l’operatore, se sul piano della razionalità può giustificare a se stesso la messa in atto di tale pratica, sia con il dover adempiere a una prescrizione medica, sia con il dover rispondere alle necessità organizzative, sul piano emotivo non può esserci motivazione che tenga. Per operatore, quello che si può verificare è una forte identificazione con la vittima, e un ribasso progressivo della propria autostima, associata a un occulto quanto deteriorante senso di colpa .
Il secondo orientamento, espresso dalla geriatra Fulvia Loik, non ha convinto i presenti, pur proponendosi come soluzione di mediazione tra l’uso della contenzione e l’abolizione di essa; anzi ha confermato quanto detto da altri relatori, ossia che non si può far passare l’idea che esiste una contenzione buona e una cattiva.
Secondo il terzo orientamento, sostenuto dalla fisioterapista Sonia Martinotta e dalla psicologa Federica Vignaga, bisogna fare un distinguo tra gli ausili e i mezzi di contenzione, i primi infatti sono strumenti di supporto atti ad aiutare la persona a tenere una postura che le permetta lo scambio con gli altri, o di poter godere di un bel panorama, insomma uno strumento che consenta alla persona di essere presente nel mondo; gli altri, invece, sono bandine, lacci e fasce ecc…, ossia, ostacoli alienanti.
Questi vengono usati con la finalità di bloccare, di impedire il movimento e, quindi, gli spostamenti nell’ambiente in cui vive, come ad esempio accedere al giardino. A tal proposito molti relatori hanno segnalato un elemento ricorrente nelle R.S.A. : le camere e gli altri ambienti utilizzabili dagli ospiti sono ai piani superiori, mentre gli uffici e gli spazi utilizzati in genere dal personale sono al piano terra. Questo è un chiaro esempio di contenzione ambientale.
Le due ultime relatrici hanno inoltre esposto i dati empirici a cui ha condotto il progetto di abolizione graduale della contenzione nella realtà lavorativa in cui operano da circa nove anni (Centro Servizi Assistenziali “S. Antonio”, Vicenza). Hanno dato testimonianza che, se il principio guida è la centralità della persona, si posso mettere in atto delle soluzioni per permettere agli anziani di avere una vita soddisfacente, orientata al benessere, e non all’evitamento e alla conseguente deprivazione sensoriale ed esperienziale in genere. Bisogna considerare che le naturali conseguenze della deprivazione e dell’isolamento sono depressione e/o comportamenti aggressivi etero e/o autorivolti.
Molto illuminante è stata la cornice giuridica data dal magistrato F. Antoni che, richiamando gli Articoli 13 e 32 della Costituzione, ha messo in evidenza come non siano necessarie nuove leggi sulla contenzione in quanto essa è già anti-costituzionale. Antoni ha inoltre ricordato che nessun intervento terapeutico può essere eseguito senza l’esplicito consenso del destinatario, sia pur dichiaratamente finalizzato al “bene” del soggetto. Gli unici casi in cui per legge sono, giuridicamente e deontologicamente, consentiti interventi diagnostici o terapeutici senza il consenso dell’interessato, riguardano il trattamento sanitario obbligatorio e lo stato di necessità (Art. 54, comma 1, Codice penale).
Quindi in caso la persona non sia nella condizione di fornire il proprio assenso, l’unico soggetto che può autorizzare una pratica di contenzione è l’autorità giudiziaria, per cui ogni iniziativa medica, infermieristica o di chiunque altro, è un atto arbitrario e non rispettoso della nostra Costituzione.
Art. 13 Costituzione
“La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dalla autorità giudiziaria nei soli casi e modi previsti dalla legge”
Art. 32 Costituzione
“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»
Art. 54, comma 1, Codice penale “stato di necessità”
“Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, ne altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
Certo, la realtà dei fatti é ben lontana (secondo i dati riportati dai relatori riguardanti la nostra regione) dal rispettare i principi guida donatici dalle nostre/i madri e padri costituenti. Infatti, i suddetti dati segnalano una correlazione diretta tra un alto indice di uso delle pratiche di contenzione nelle strutture residenziali per anziani (di media il 68,7%) e il tasso di danni verificatisi a scapito degli anziani che ospitano; tra quelli più comuni:
1. traumi meccanici (strangolamento, asfissia da compressione della gabbia toracica, lesione dei tessuti molli superficiali)
2. malattie funzionali ed organiche (incontinenza, lesioni da decubito, infezioni)
3. sindromi della sfera psicosociale (stress, umiliazione, depressione e paura).
Nel tentativo di arginare questa diffusa quanto sconfortante situazione, in molte realtà con utenza geriatrica sono stati sottoscritti dei protocolli per un uso “umano”, “rispettoso”, e “controllato” della contenzione. Certo, bisognerebbe chiedere alla persona che subisce tale pratica quanto possa sentirsi umanizzato e rispettato nella propria dignità! Dunque, “Di cosa si parla quando parliamo di contenzione”. (P. Dell’Acqua, Forum Salute Mentale, maggio 2012)
In letteratura ci sono diverse formulazioni della definizione di contenzione, che in linea di massima sono riassumibile come ogni mezzo di costrizione fisica della libertà di movimento della persona o del normale accesso al proprio corpo e/o all’ambiente circostante. In particolare, la contenzione meccanica utilizza strumenti o dispositivi applicati al corpo o a parti di esso atti a limitare la libertà dei movimenti volontari dell’intero corpo o di un suo segmento.
Bisogna tener presente che un anziano, specialmente se deteriorato, non ha più le forze, le energie, e il fiato per dire “no”, per dire “basta”, per difendere e preservare l’inviolabile spazio della soggettività, ossia lo spazio d’esistenza dell’individuo. È in questo luogo che l’essere umano può incontrare se stesso, riconoscersi, individuarsi, e differenziarsi dall’altro; in questo luogo l’altro non può e non deve entrare se non per offrire ausilio, conforto e sostegno. Queste sono le uniche violazioni che un essere umano può tollerare.
Se questa pratica è ancora così diffusa è perché la si considera, in alcuni casi anche ingenuamente, uno strumento per prevenire cadute ed infortuni in genere. In alcuni protocolli viene addirittura spacciata per trattamento terapeutico. A tal proposito Peppe dell’Acqua scrive: “La contenzione non può essere considerata un atto medico, vale a dire che non ha funzioni terapeutiche e dunque non può essere giustificata come conseguenza della malattia della persona. La contenzione, infatti, rende impossibile, limita e ostacola qualsivoglia atto terapeutico, di assistenza o di cura. Rende impossibile qualsiasi percorso di consapevolezza da parte di chi la subisce. Tutte le ricerche e le osservazioni che si possono consultare, arrivano a queste conclusioni. Ed è per questo che non può essere considerata atto sanitario e dunque non ha senso che sia prescritta da un medico né attuata da un infermiere, non può essere protocollata né essere oggetto di linee guida”.
A mio avviso in questo seminario è mancato il tempo per un osservazione un po’ più attenta ed obiettiva riguardante l’uso residuo, a volte occulto o mascherato, di pratiche contenitive in Psichiatria, anche nella nostra regione. Per quanto virtuosa sia e per quanto si possa considerarla un faro per le altre regioni, non tutti gli S.O.P.D.C. funzionano come quello mitico di Trieste. Ho l’impressione che a volte si dia troppo per scontato il mantenimento e la capitalizzazione dei risultati ottenuti. Spesso trincerandosi dietro vecchie glorie di battaglie fatte da altri, si trascura che la ricerca del rispetto dell’umanità, il riconoscimento della dignità e l’inviolabilità della persona dell’altro, sia esso un “matto”, un “handicappato”, “un anziano”…, sia una sfida personale e collettiva sempre aperta. Come ogni conquista di civiltà dell’umanità, essa richiede osservatori vigili, per intercettare le forme nuove che questa pratica può assumere, e costanti revisioni.
Ma ancora di più mi inquieta il fatto che, come in altre occasioni, anche in questa la disabilità è stata letteralmente ignorata, come se fosse stata nascosta in un punto d’ombra della nostra coscienza, come se fosse un ambito dove certe cose non possono avvenire. Invece, è proprio qui che la logica punitiva e della sottrazione impera, sostenuta e legittimata da una psicologia comportamentista del premio e della punizione, dove la progettualità a lungo termine si limita ad aumentare i comportamenti accettabili, graditi (agli operatori, ovviamente), o diminuire quelli sgradevoli e/o aggressivi. Ovviamente questa non vuole essere una critica generalizzata, ma un invito sincero, che rivolgo prima a me stessa, a riflettere su quanto di contenzione c’è e sopravvive nelle scelte che operiamo per i nostri utenti; quante volte per esasperazione, per inesperienza, o semplicemente perché non si è riusciti a trovare soluzioni più creative, alternative, senza perfida intenzionalità, abbiamo creato una condizione di isolamento o di segregazione nelle nostre comunità?
A questo punto ritorno a leggere gli Articoli sopracitati della nostra Costituzione.
Ada Simona Del Coco