Nuovi soggetti/ Nuove questioni
Nuovi soggetti e nuove questioni sono emersi sulla scena con forza negli ultimi anni; soltanto di alcuni scegliamo a parlare: le famiglie e le associazioni, il rapporto tra pubblico/privato/privato sociale, gli/le immigrati.
Delle persone con l’esperienza del disturbo mentale e delle loro associazioni, dei percorsi di ripresa e del protagonismo, decidiamo di non parlarne ora. Consapevoli di quanto ci determinano e di quanto segnano i momenti più alti dei processi di cambiamento. Intorno a questo dobbiamo ulteriormente operare per promuovere insieme percorsi, spazi, confronto.
Le famiglie e le associazioni
Il cambiamento della scena della cura dal manicomio al contesto ha determinato l’emergere di nuovi soggetti: le persone con disturbo mentale e i loro familiari. La famiglia, nella psichiatria manicomiale, fatte salve alcune eccezioni, era il luogo delle tare ereditarie, che sarebbero state all’origine del disturbo mentale. Di qui stigma e pregiudizi che hanno costretto per secoli alla disperazione, al ritiro,al silenzio, alla vergogna.
Con fatica la famiglia sta abbandonando questa dolorosa posizione anche se nuovi modelli teorici e conseguenti scelte terapeutiche danno alla presenza delle famiglie diversa rilevanza e spesso le strategie d’intervento escludono rigidamente i familiari, non considerano i loro bisogni, assumono atteggiamenti colpevolizzanti. Molti operatori vivono come fastidiosa e ingombrante la presenza dei familiari e alimentano conflitti e comportamenti di difesa.
I servizi che veramente lavorano nella comunità al contrario hanno bisogno di riconoscere i familiari per trovare con loro obiettivi comuni e valorizzare nuove risorse.
Bisogna prima di tutto riconoscere che essi sono soggetti che interagiscono col servizio e con la persona con disturbo mentale sullo stesso piano. Questo è il senso del dialogo a tre voci che deve essere avviato, sostenuto e valorizzato. I familiari sono portatori di domande e bisogni propri. E’ dando credito a queste domande e cercando faticosamente riposte a questi bisogni che può avviarsi un confronto reale che alimenti consapevolezza e responsabilità di tutti gli attori presenti sulla scena. In questa cornice sono possibili alleanze e percorsi comuni al riparo dal rischio di manipolazioni, ricatti, inutili conflitti.
Le associazioni sono nate ed agiscono per affermare e garantire prima di tutto il diritto alla cura, a volte sono partite da punti di vista diversi, ma sono saldamente unite dallo sforzo di contribuire a migliorare la qualità delle cure riducendo il disagio e tutte sottolineano gli stessi problemi:
Il carico assistenziale della persona con disagio mentale in rapporto alle insufficienze dei servizi di salute mentale.
La colpevolizzazione che le famiglie vivono in quanto vengono ritenute responsabili del disturbo mentale. Questo modo di vedere viene alimentato anche dagli stessi operatori dei servizi.
Il problema della lontananza dei servizi e della loro discontinuità nei programmi di lungo periodo. I familiari la giudicano un ostacolo insormontabile ai percorsi della guarigione.
I diritti e le libertà della persona affetta da disturbo mentale, che, quando trascurato, determina l’abbandono e contribuisce all’emarginazione.
Le associazioni richiedono leggi rispettose della dignità delle persone e la disponibilità di risorse e percorsi adeguati per garantire una vita sociale, una casa, la formazione, il lavoro.
Su questi obiettivi tutte le associazioni sono concordi.
Le differenze si riscontrano sulla concezione della persona con disturbo mentale.
Per alcune associazioni, una persona “irresponsabile ed incapace”, che necessita di tutela, di maggiori automatismi nei trattamenti obbligatori, di tempi di ricovero più lunghi, di riconoscimento per legge di uno statuto di handicap.
Per altre associazioni invece, una persona che deve avere diritto ad una crescita personale, alla sua autonomia, ad una collocazione nella società attraverso percorsi di normalità. Queste associazioni chiedono anche una maggiore disponibilità del servizio a farsi carico o a condividere le situazioni di crisi, un minore ricorso ai ricoveri obbligatori e l’abbandono di tutte quelle situazioni di costrizione che aumentano la drammaticità dei trattamenti e ne riducono l’efficacia.
Se il forum non può condividere talune soluzioni, proposte caratterizzate da visioni arcaiche e non utili per le persone con disturbo mentale, ritiene in ogni caso di dover operare per affrontare i problemi che le associazioni pongono. Problemi che sono nati sempre e comunque dallo scollamento tra le aspettative di emancipazione e la miseria spesso colpevole delle risposte.
Anche quando si colloca in modo ostinato in uno scenario conflittuale e di rivendicazione fuori dai servizi o addirittura in lotta con questi, quando rischia di rimanere estraneo alle dinamiche politiche e sociali della comunità l’associazionismo deve essere visto come una spinta alla realizzazione dei servizi territoriali, delle opportunità di cura e più in generale delle politiche relative alla salute mentale.
Il rapporto tra pubblico, privato e privato sociale
Il 60% dei letti per acuti e post acuti e l’80 % dei letti per cronici sono oggi gestiti in Italia dai privati: cliniche convenzionate le prime, strutture protette del privato sociale le seconde. A questo si aggiunga il 90% degli psicogeriatrici e dei minori gestiti in strutture private del terzo settore. Le convenzioni sono gestite direttamente dalle regioni e dalle ASL in trasmissione diretta burocratico amministrativa. I DSM, troppo spesso voluti inesistenti come responsabili ed organizzatori dei fattori produttivi, sono stati posti al margine di questa enorme area business, che si gonfia sempre di più spinta avanti da amministratori e politici che pensano di guadagnare e gestire consenso facendo leva sul desiderio di sicurezza, di buone cure, di efficienza dei servizi, di concreta solidarietà, aumentando il potere delle istituzioni direttamente scelte dai cittadini e quindi private.
Rimane quindi sostanzialmente critica l’annosa questione del rapporto pubblico/privato/privato sociale. Questo rapporto è sempre difficile e ambiguo, quando si sostanzia come delega o come affidamento di sofferenza non “gestibile” da parte di un servizio pubblico spogliato di ogni potere ad affrontare questa sofferenza nel suo diverso esprimersi, e in particolare nelle cosiddette forme di “cronicità vecchia e nuova” prodotto di fatto della inadeguatezza della cura e presa in carico da parte dei servizi stessi, più intenti alle funzioni residuali di regolatori del traffico verso i privati che all’esercizio di una funzione cui hanno rinunciato.
Il rapporto con il privato e, particolarmente con il privato sociale, potrebbe invece trovare senso e reciproca utilità quando vincolato fortemente a strategie terapeutiche uniche e sempre governate dal servizio pubblico e soprattutto alla costruzione di un prodotto di concreti diritti. Quando il pubblico smetta di appaltare “strutture” e pagare per rette, ma si confronti con il privato costruendo co-gestione su progetti terapeutico-riabilitativi individuali, che prevedano la corresponsabilità anche della municipalità, come pure tendano a rendere partecipe il soggetto e la sua famiglia.
Ma riteniamo che lo stesso privato sociale deve necessariamente rilanciare una sua sfida, rivisitare regole ed organizzazione, espellere quelle parti di sé disponibili solo a patti regressivi con il pubblico, speculativi e non emancipativi. Riunificare ciò che è stato diviso (cooperative A e B), abbandonare la stagione degli appalti e dell’economia di guerra. Garantire l’applicazione del contratto di lavoro per i/le socii/e, garantire a questi/e formazione e partecipazione democratica alla vita della cooperativa. Ri-organizzarsi su dimensioni di piccola scala e territoriali contro le mega-cooperative. Vincolarsi a pratiche di sviluppo locale sostenibile. Cimentarsi con la ri-costruzione dei diritti veri (casa, lavoro, affettività) delle persone escluse, delle loro famiglie e della comunità.
Compito improrogabile è quello di rivedere le legislazioni regionali costruendo forti sistemi incentivanti per le cooperative sociali che inseriscono nella loro compagine almeno il 30% delle persone svantaggiate, indipendentemente dalla tipologia dell’oggetto sociale, e disincentivando quelle che non lo fanno. Eliminando così un paradosso che vede nelle cooperative A le uniche organizzazioni del lavoro senza obbligo di inserimento delle persone con disabilità sociale.
Vanno in molte regioni ancora risolte le ambiguità di certe proposte di accreditamento -tese a favorire precipuamente il privato speculativo- che nascondono una delega omissiva da parte del servizio pubblico a quello privato che a sua volta usa la scarsa contrattualità di scelta dei soggetti come vantaggio obbligato alla propria organizzazione.
Gli/Le immigrati/e
Ammesso, e non concesso che si possa promuovere la salute mentale con le immigrate e gli immigrati in presenza di una legge come la Bossi Fini che ha nei suoi principi la sottrazione e la negazione di diritti fondamentali, va precisato che il coinvolgimento delle municipalità nella promozione di azioni volte all’integrazione sociale di queste persone è condizione indispensabile.
Le frammentarie conoscenze della psichiatria denominatasi transculturale non devono servire a trasformare in teoriche osservazioni i prioritari bisogni di integrazione sociale di queste persone.
Oggi appare necessario nella logica dell’”etica dell’accesso” (Saraceno) porre attenzione ai problemi messi in campo dalle molteplici diversità etniche, religiose, linguistiche, culturali, genetiche… che costituiscono le nostre comunità territoriali. Ciò non significa costruire servizi separati, ma organizzare sempre più servizi accessibili a tutti, che garantiscano accesso alle cure ma anche ascolto, sostegno, scambi, opportunità materiali ed affettive, evitando la medicalizzazione di diverse espressività che non sempre corrispondono a segni di malattia.