I medici la chiamano “Terapia elettro convulsivante” (Tec), ma ai profani è più nota come “elettrochoc”. Un nome sinistro, che evoca libri e film (come l’indimenticabile Qualcuno volò sul nido del cuculo). In pochi sanno però che questo trattamento è ancora applicato in molti paesi del mondo, Italia compresa. L’argomento è tabù, tanto che persino i laureandi in medicina spesso sono portati a credere che la Tec sia ormai un cimelio della storia della psichiatria. Non è così. In Gran Bretagna è regolarmente utilizzata in 160 centri psichiatrici, la Germania si “ferma” a 159. Negli Usa è somministrata a 100 mila persone l’anno.
In Italia, secondo i dati resi noti dal ministro della Salute Renato Balduzzi durante un’audizione alla commissione Sanità del Senato, è praticata in 12 centri: 9 pubblici e 3 privati. Ma secondo uno studio dell’Università di Pavia, sono almeno 14 le strutture dotate di un macchinario per la terapia. A Cagliari l’hanno abbandonata due anni fa, a Pavia negli ultimi vent’anni sono stati trattati solo 4 casi. Ma altrove i numeri sono significativi. All’ospedale San Martino di Oristano, tra il 1999 e il 2009, sono stati trattati 199 pazienti, con 6 sedute a testa in media. A Montichiari nel 2009 sono state eseguite 557 applicazioni: 51 pazienti sono stati sottoposti a Tec in media 8 volte, mentre altri 16 hanno ricevuto altri trattamenti «di mantenimento» a distanza di 3-6 mesi, a seconda della ricomparsa dei sintomi psichiatrici. Nella clinica dell’Università di Pisa la Tec viene applicata a 80-90 pazienti l’anno. In tutto, in Italia nel triennio 2008-2010 sono stati eseguiti più di 1.400 elettrochoc, soprattutto su donne e over 40.
I numeri tengono conto solo delle strutture pubbliche o convenzionate con il servizio sanitario. In base alla direttiva emessa nel ’99 dal ministro Bindi (ancor oggi l’unico riferimento normativo), sono le sole autorizzate a eseguire la Tec. Ma nei fatti non è così. Ci sono cliniche non accreditate che arrivano a praticarla sul 6 per cento dei ricoverati. Poco o nulla si sa, però, di cosa accada veramente tra le loro mura. Raccogliere informazioni è infatti difficile: l’indagine dell’Università di Pavia si scontrò con la diffidenza di diversi centri interpellati, timorosi che «un’attenzione particolare potesse creare problemi al lavoro clinico».
Meglio insomma tenere le luci spente su una terapia nata nel 1938 su intuizione dei neurologi italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini. Avendo notato l’effetto anestetizzante di una moderata scarica elettrica sui maiali destinati al macello, decisero di sperimentarla su soggetti schizofrenici. Oggi la Tec è utilizzata solo nei casi di depressione più gravi, refrattari ai farmaci. Si richiede il consenso «libero, consapevole, attuale e manifesto», da esprimere in forma scritta dopo una completa informativa da parte del medico. Qualora il paziente «non fosse in grado di esprimere liberamente il suo consenso», la Tec può essere praticata – dietro assenso del tutore – in regime di trattamento sanitario obbligatorio (Tso).
La comunità scientifica resta profondamente divisa. Ma in assenza di una legge che proibisca l’elettrochoc (nel 2000 fu inutilmente presentato un disegno di legge che prevedeva anche il carcere per chi lo avesse praticato), il problema è essenzialmente quello dei controlli, non sempre adeguati e rigorosi: la circolare Bindi prevedeva la vigilanza da parte delle Asl e di commissioni interne, che però non si sa fino a che punto sia effettiva. Una questione sollevata dall’interrogazione parlamentare dell’onorevole Delia Murer (Pd), che non ha ricevuto risposta. La circolare Bindi sottolinea che «la psichiatria dispone attualmente di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale», tuttavia il Comitato nazionale di bioetica, a suo tempo, ritenne che non ci fosse motivo «per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate dalla letteratura scientifica». Il parere risale al 1995. Dopo 17 anni, la Tec è ancora avvolta da ombre e pregiudizi, in attesa che qualcuno faccia chiarezza una volta per tutte
Marco Birolini
(da l’Avvenire)