Il numero di novembre di Alfabeta ha pubblicato 3 interventi sulla questione salute mentale. “Giù le mani dalla 180” il titolo della proposta. Con l’autorizzazione della redazione abbiamo già pubblicato il contributi di Francesco Galofaro (vedi) e quello di Mario Colucci (vedi). A seguire quello di Peppe Dell’Acqua
Legge Basaglia, trent’anni di lavoro. E i tentativi di deleggittimarlo.
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Era il 1979 quando Olcese, parlamentare repubblicano, presentò il primo disegno di modifica della Legge 180. Non era passato neanche un anno dal quel 13 maggio 1978.
Il 5 settembre di quell’anno la Repubblica pubblicò in prima pagina un lungo commento di Basaglia: “Il fascino discreto del manicomio”. Da allora, sono passati 33 anni e circa 50 proposte di modifica della Legge.
Abbiamo dovuto avere la pazienza di leggerle tutte: nelle premesse tutte elogiano il valore della svolta che si è consumata nel nostro paese, ma poi si smentiscono negli articoli che seguono. Tutte le proposte auspicherebbero in sostanza un altrove distante per i matti e un potere assoluto per lo psichiatra: un trattamento della malattia mentale ancora più arcaico della Legge n.36 del 1904.
Ma il disegno di legge di Ciccioli ha superato tutti gli altri in spudoratezza: dispositivi per prolungare all’infinito la sottrazione di libertà, cancellazione di soggettività, di storia, d’identità. La vita delle persone con disturbo mentale viene privata di ogni significato, nella convinzione che la malattia stia nel cervello. Le recenti e innovative scoperte delle neuroscienze e della genetica nelle mani degli psichiatri, una sorta di psichiatrizzazione delle conoscenze ad uso dei profitti già ingentissimi dell’industria del farmaco, sembrano sostenere ormai oltre ogni ragionevole dubbio il paradigma biologico. Una pericolosa deriva eugenetica!
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Non riesco a entusiasmarmi alla “campagna” di difesa della 180. So bene quanto tutto il “popolo” della salute mentale sia stato letteralmente terrorizzato dalla discussione della commissione parlamentare intorno all’infelice proposta Ciccioli. E quanto la partecipazione delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale abbia completamente trasformato in una dimensione di impensabile futuro il dibattito intorno alla “questione psichiatrica”.
Eleonora, una giovane donna di Perugia che ha vissuto e sta vivendo l’esperienza, scrive al Forum Salute Mentale raccontando del suo rabberciato percorso di cura, del rischio quotidiano di perdere la sua identità e la sua storia. Denuncia sconnessioni, attese, distanze. S’interroga sulla natura della cura. Alla fine, sconsolata, si chiede: a 30 anni dalla chiusura dei manicomi, cos’è cambiato?
Si è concluso da poco il processo per la morte (l’assassinio) di Giuseppe Casu. Come pochi ricordano, il 60enne fruttivendolo a Quartu Sant’Elena, marito e padre di 5 figli, muore nel giugno 2006 dopo 7 giorni legato al letto nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Cagliari. Il processo è durato circa 6 anni. I fatti messi in evidenza sono agghiaccianti. Tutti i sanitari coinvolti sono stati assolti.
E’ in corso al Tribunale di Vallo della Lucania, Salerno, il processo contro medici e infermieri di quell’ospedale che, secondo l’accusa, concorsero alla morte (all’assassinio) del maestro 60enne Francesco Mastrogiovanni. La morte avvenne dopo 4 giorni di contenzione, di disattenzione, di malnutrizione, di disidratazione, di abusi farmacologici.
Pochissimi sanno di queste storie. Non fosse per l’impegno delle associazioni di utenti familiari e cittadini, non se ne saprebbe nulla. Quelli che sanno spesso preferiscono non parlarne.
La SIP, Società italiana di psichiatria, se parla è per difendere indignata gli psichiatri sotto accusa. Eppure questi danni e questi rischi, sono paurosamente estesi.
Ecco, forse per questo la campagna a difesa della 180 non mi entusiasma.
Ma guai se la “180” non ci fosse! C’è e ritengo che resterà ancora per molto. Il problema non è, come stupidamente si dice, la sua applicazione “a macchie di leopardo”. La 180 rappresenta la riforma più radicalmente e diffusamente realizzata. Il problema è quanto accade in tante volgari e cattive pratiche quotidiane delle psichiatrie del farmaco e della diagnosi. La colpa è delle rozze amministrazioni locali. Del silenzio di tanti che, per altro, si dichiarano ostinati difensori della 180.
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Carlo Falcone, ingegnere napoletano, fratello amoroso di Pietro, che da anni vive l’esperienza del disturbo mentale, con sua madre Lina e altri familiari napoletani, ha messo in piedi una cooperativa sociale, “Arte, musica e caffè”. Hanno aperto un ristorante, pasticceria, rosticceria, “Sfizzicariello” al centro di Napoli, dove lavorano 10/15 persone che hanno conosciuto e conoscono la malattia mentale. In cucina e nel locale lavorano anche alcune mamme. Tra servire ai tavoli, catering e forniture, l’impresa va avanti bene.
Carlo, la mamma Lina e altri familiari sono diventati instancabili difensori della 180 che riconoscono come la garanzia per i loro “ragazzi” a restare nel contratto sociale.
Quando hanno saputo che, nella seduta del 17/5/12 della Commissione Affari Sociali della Camera, era passato con i voti della Lega e del PDL il disegno di legge Ciccioli, hanno deciso di scrivere al Presidente della Repubblica. La risposta del Presidente non si è fatta attendere. Ecco il testo:
Roma 26.7.2012 “OGGETTO: Esposto […] in materia di Riforma dell’Assistenza Psichiatrica con la Proposta di Legge “Disposizioni in materia di Assistenza Psichiatrica”
Con riferimento all’esposto […] per quanto di competenza, si forniscono i seguenti elementi informativi.
Premesso che la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati nella seduta del 17/5/12 maggio 2012 non ha approvato il Disegno di Legge in oggetto, ma ha solamente deliberato di adottare, quale testo base per il seguito dell’esame, la proposta di testo unificata elaborata dall’On.le Carlo Ciccioli, si fa presente che l’intero impianto della proposta di Legge è, di fatto, già normato da Leggi vigenti e gli orientamenti sono già ampiamente indicati dai Progetti Obiettivo e dalle Linee di Indirizzo Nazionali, nonchè da documenti internazionali (OMS e Commissione Europea) sottoscritti dal nostro Paese.
Le garanzie oggi offerte dalla nostra legislazione in merito all’obbligatorietà delle cure sono considerate, a livello europeo, altamente qualificanti. Introdurre, quindi, meccanismi che diminuiscono la tutela dei diritti dei pazienti e prolungano le durate per motivi di sicurezza personale e sociale, rischia di farci fare passi indietro.
Tutti gli studi, nazionali e internazionali, dimostrano, in ultimo, che l’efficacia delle cure è direttamente proporzionale all’adesione ad esse”.
Tali dichiarazioni confermano che sarà difficile che la 180 venga manomessa. Il problema è un altro e di altro bisognerebbe parlare. […]
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Tuttavia, il disegno di legge va conosciuto. Il testo Ciccioli mette in fila luoghi comuni accattivanti (e manipolatori), che alla fine svelano il vero obiettivo di questo strampalato testo: confermare la fragilità dei servizi, rafforzare politiche locali di salute mentale fallimentari, accreditare le peggiori psichiatrie farmacologiche, delle case di cura, delle residenze senza fine, dei reparti blindati dove si muore legati, posti letto che aumentano, dovunque, negli ospedali, nelle cliniche universitarie, nelle case di cura private (soprattutto in queste!) I trattamenti riabilitativi devono essere prolungati di sei mesi in sei mesi obbligatoriamente, anzi necessariamente, per contenere la cronicità dei malati di mente che non sanno di essere cronici e rifiutano le cure. Nella prescrizione del trattamento sanitario necessario prolungato, una ragnatela di soggetti istituzionali, (sindaco, giudice tutelare, amministratore di sostegno, dipartimento di salute mentale, psichiatra responsabile, familiare, privato sociale e privato mercantile) la confusione, l’approssimazione, l’incompetenza diventa parossistica e svela il fine: spostare ingenti risorse al privato per tempi infiniti.
Su questi punti, il sottosegretario Cavalieri ha dovuto ricordare alla Commissione che si sta discutendo di legge di rango primario e che scelte di politiche sanitarie e di dettagli amministrativo-organizzativi spettano alle regioni.
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Se i parlamentari guardassero veramente quello che accade, coglierebbero la ricchezza del cambiamento. Potrebbero valorizzare e comprendere la forza di esperienze che hanno costruito possibilità inaspettate per migliaia e migliaia di cittadini. Potrebbero capire che esistono servizi e programmi, semplici nella loro articolazione, per niente costosi, ricchi di risultati inimmaginabili. Se i parlamentari volessero, scoprirebbero che, malgrado la persistenza di ostacoli e pregiudizi, la riforma ha fatto il suo corso. Le ricerche condotte negli ultimi 10 anni dall’Istituto Superiore della Sanità sull’assetto dei servizi sembrano confermare clamorosamente il percorso positivo avviato nel ’78. Le indicazioni del secondo Progetto Obiettivo nazionale per la tutela della salute mentale sono state in buona misura realizzate. I Dipartimenti sono diffusi in tutte le regioni. Sono presenti 289 servizi ospedalieri per acuti con circa 3.000 posti letto. Esistono strutture residenziali in tutto il territorio nazionale, che ospitano circa 20.000 persone. Anche il dato relativo alla presenza dei Centri di salute mentale sembra essere confortante: uno ogni 80.000 abitanti. Cooperazione sociale e associazioni completano il quadro. Volendo, potrebbero finalmente accertare che il tanto temuto aumento del numero di suicidi, omicidi e violenze di ogni genere che avrebbero dovuto seguire la chiusura dei manicomi non si è verificato. Il nostro paese, in ordine a questi eventi, vanta tassi molto bassi e irrisori se confrontati con altri paesi che si fondano su sistemi ancora manicomiali e ancorati alle logiche del controllo, del rischio, della pericolosità.
Guardando veramente, i parlamentari scoprirebbero insomma differenze di funzionamento e di pratiche tra le diverse regioni, tanto più intollerabili quando queste differenze rendono diseguali i cittadini.
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Oggi si possono raccontare molte storie. Storie di persone che, malgrado la severità della loro malattia, mai hanno subito restrizioni e mortificazioni. Hanno potuto attraversare Centri di salute mentale aperti 24h orientati alla guarigione, capaci di accogliere e accompagnare nel percorso di ripresa fino a trovare la propria strada. Esperienze esemplari e pratiche diffuse in tutto il territorio hanno dimostrato che è possibile costruire percorsi di ripresa e nuove opportunità di partecipazione. Esperienze che privilegiano il territorio, le reti, la prossimità, la domiciliarità, contrastando di fatto il rischio dell’abbandono e del rifiuto, la cronicità e la pericolosità.
La bellezza di quanto accade rende ancora più insopportabile la cecità delle psichiatrie e delle accademie, sempre più ferme sul nesso cervello-malattia.
Davanti agli occhi di tutti le cattive pratiche persistono fino all’indecenza, dacché Eleonora a Perugia, il maestro Mastrogiovanni a Salerno e il fruttivendolo Casu a Cagliari gridano la vergogna della loro dolorosa testimonianza.
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Abbiamo imparato che non esiste nessuno che non possa essere curato. Che non esiste soggetto senza storia e storie senza persone.
Il Centro di salute mentale aperto 24h, e non più l’ospedale, è la struttura organizzativa forte che orienta la domanda e sostiene il lavoro terapeutico-riabilitativo. Molte Regioni hanno avviato programmi e investimenti in questa direzione, attivando reti di servizi di salute mentale integrati che possano operare sulle 24h, 7 giorni su 7. Le politiche della crisi e incomprensibili riassetti organizzativi attentano quotidianamente allo sviluppo ulteriore dei servizi comunitari territoriali. In molte Regioni, dove generosi Presidenti dichiarano la loro fedeltà alla legge 180, accadono “crimini di pace” nel silenzio di un’ovattata quotidianità.
Ospedali, cliniche, case di cura e “politiche del farmaco” devono lasciare spazio al territorio, ai progetti personalizzati, all’abitare assistito, alla cooperazione sociale. Quanto più il territorio diventa luogo concreto dell’inclusione e della riabilitazione tanto più il farmaco, la diagnosi, la malattia assumono diversa visibilità e il sapere psichiatrico deve ricollocarsi in questa nuova dimensione: la malattia non può che essere in relazione alla persona. Cos’altro dovrebbe essere la legge 180, se non questo?
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Se i parlamentari (e gli psichiatri, e gli amministratori e i giornalisti) prestassero più attenzione, scoprirebbero il bisogno di “inventare istituzioni” capaci di garantire la permanenza delle persone nel contratto sociale, fronteggiando il rischio della marginalizzazione. Altro che trattamenti necessari e prolungati!
Basta riflettere sulla parola necessario al posto di obbligatorio.
“Obbligatorio” significa prima di tutto che l’altro esiste. Posso “obbligare” qualcuno con un’ordinanza o una norma quando ho riconosciuto la sua autonomia e la sua possibilità di rifiuto. La parola è una tensione alla negoziazione. Obbligare qualcuno a qualcosa ha a che vedere anche con un’assunzione di responsabilità: un sentirsi obbligato nei confronti dell’altro che sto obbligando, limitando la sua libertà, invadendo il suo spazio intimo e personale.
“Necessario” nega invece l’esistenza dell’altro. Nega la presenza del soggetto in ragione di qualcosa che trascende i contesti, le relazioni, le storie, gli individui. Sposta l’attenzione su ciò che si deve ritenere di assoluto bisogno: non c’è trattativa perché la necessità rimanda a un oggetto, a un cervello, alla malattia mentale, che rientra nella naturalità, nell’ineluttabile accadere delle cose
Necessario è, nella radice del suo significato, “non cedere”, difendere una posizione. Necessario attiene alla forza “naturale” che la normalità deve esercitare sulla follia, dopo averla ridotta a malattia. Nel rapporto con chi vive l’esperienza del disturbo mentale non si può cedere: fare o non fare un trattamento significa, per chi esercita il potere, vincere o perdere.
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Il malato di mente è un cittadino come tutti gli altri? E’ un cittadino che può godere a pieno titolo del diritto costituzionale? Del diritto alla cura e alla salute nel rispetto della libertà, della dignità e dell’inviolabilità del corpo come l’art. 32 recita?
I malati di mente non sono mai stati cittadini fino a quando, in Italia, alla fine degli anni Settanta, un manipolo di bravi legislatori, capitanato da Tina Anselmi, ha reso per la prima volta i malati di mente cittadini, persone, individui. La tutela della soggettività e del diritto alla cura della persona che rifiuta assumono assoluta priorità. Questo è il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Questa è la legge 180.
(testo, in parte, tratto da un articolo già pubblicato da Il Sole24oresanità del 17/23 aprile 2012)