Nessuna conseguenza terapeutica dalle scoperte delle neuroscienze

Intervista a Carlo Umiltà, autore del volume Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo (il Mulino, Bologna, 2009)

di Nico Pitrelli

Ha avuto risonanza mediatica nazionale una sentenza della corte d’Assise di Trieste, risalente all’ottobre scorso, che riconosceva uno sconto di pena a un cittadino algerino colpevole di omicidio in quanto portatore di “vulnerabilità genetica”.

Sul forum la questione è stata già affrontata da Pier Aldo Rovatti in un articolo1 (Responsabilità e geni cattivi, https://www.news-forumsalutementale.it/responsabilita-e-geni-cattivi/) in cui si profilavano i rischi delle pratiche scientifiche rivolte a individuare anomalie genetiche.

Le tecniche mediante le quali è stata riconosciuta l’attenuante genetica a Abdelmalek Bayout sono le moderne procedure di scansione e imaging del cervello, finalizzate a rendere in immagini anatomia e funzionalità celebrale.

Quest’aspetto ci ha dato lo spunto per approfondire alcuni dei temi introdotti da Rovatti. Lo abbiamo fatto con Carlo Umiltà, professore di neuropsicologia all’Università di Padova, il quale, insieme a Paolo Legrenzi, ha di recente pubblicato per la casa editrice il Mulino di Bologna li libro Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo», un pamphlet in cui gli autori ci mettono in guardia dagli usi distorti delle nuove tecnologie di neuroimmagine.

Prof. Umiltà, come commenta la sentenza della Corte d’Assise di Trieste?

Non conosco i dettagli della vicenda, ma faccio fatica a credere che si siano basati su un singolo esame di neuroimmagine per arrivare a delle conclusioni così importanti.

In generale le tecniche di imaging sono procedure di ricerca che, se applicate bene, al massimo portano a risultati che vanno valutati probabilisticamente. Non capisco come sia possibile arrivare a conclusioni di questo tipo basandosi su un singolo caso. Saremmo di fronte a ipotesi selvagge.

La mia impressione generale è che si stia verificando un’infatuazione priva di fondamento per i risultati delle neuroscienze cognitive.

Fra l’altro, improvvisamente, il lavoro che una parte della comunità scientifica svolge da più di un secolo senza clamori al di fuori delle cerchia specialistica, è diventato di grande interesse sia per il pubblico dei non-esperti che per altri scienziati.

Si parla spesso di tecniche nuove, ma sono nuove fino a un certo punto perché il loro aspetto concettuale risale alla fine dell’Ottocento. Le tecniche insomma sono più sofisticate ma i principi vecchissimi.

È successo però che la gente ha visto i disegni del cervello con le macchie colorate e si è convinta che quello è davvero ciò che succede. Non è vero. Fra il modo in cui si distribuisce il sangue nel cervello e le conclusioni relative a quali aree sono attive nel momento che si svolgono certi processi cognitive ci sono un serie di passaggi basati sulla statistica con enormi possibilità di errore. I non esperti, anche i giudici evidentemente, si sono convinti che si può vedere direttamente il cervello al lavoro. Ma non è così.

C’è molta discussione attorno alla riproposizione, con le nuove teniche di imaging celebrale, dei rischi del riduzionismo scientifico nel campo della malattia mentale. Lei cosa ne pensa?

Voglio essere chiaro. Io sono un riduzionista. Secondo me, mente e cervello coincidono. Questa è una mia convinzione che però allo stato attuale delle cose non può avere alcuna conseguenza pratica perché sappiamo troppo poco.

Se io avessi una persona cara con disturbi mentali, le consiglierei di andare da uno psicoterapute e valuterei quale tipo di psicoterapia ha fondamenti più solidi.

C’è poi un altro punto sulle neuroimmagini. È importante sottolineare che, quando va bene, ci dicono dove sono localizzati nel cervello certi processi mentali, ma non ci dicono nulla su come funzionano. Forse sarà possibile in futuro ma non con le semplici localizzazioni altamente aleatorie che ci forniscono le neuroimamgini

Le neuroscienze possono avere un impatto positivo sulla salute mentale?

Assolutamente sì ma nel futuro, non adesso. Il giorno in cui avremo una conoscenza neurale sottostante ai nostri processi mentali avremo fatto dei passi avanti nel contrastre il disagio mentale, ma adesso siamo molto lontani da quest’obiettivo. L’idea di prendere scorciatoie e pensare che siamo già arrivati alla meta è di una pericolosità assoluta.

Che tipo di informazione andrebbe fatta riguardo alle scoperte delle neuroscienze, soprattutto nei confronti delle famiglie e delle persone che attraversano l’esperienza del disturbo mentale?

Bisognerebbe dire che abbiamo fatto dei piccoli passi, probabilmente nella direzione giusta, per capire come il cervello determina i nostri processi mentali e quindi anche i disturbi mentali, ma sono passi così piccoli e così incerti che non devono avere la minima conseguenza pratica.

Le faccio un esempio. Avrà sentito parlare delle ricerche sui neuroni-specchio2. Si tratta di scoperte importantissime per le neuroscienze, in cui fra l’altro l’Italia gioca un ruolo di primo piano.

Sono convinto che certe forme d’autismo siano collegate a un cattivo funzionamento dei neuroni-specchio. Detto questo non vedo nessuna conseguenza pratica. Ai genitori di bambini con problemi autistici direi che, ammesso che le scoperte siano confermate, per un possibile intervento terapeutico se ne riparla tra cinquant’anni.

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