Scritto nel luglio 2018 da Angelo Bettoni, ingegnere, già Presidente dell’ALER di Brescia, obiettore di coscienza a Trieste nel 1974
“Ritorno in manicomio dove i pazzi mi sembrano come quegli alberi che vidi una volta in America dopo il passaggio di un uragano, con le radici in alto e i rami sotto terra”.
(La marchesa e i demoni, M.L. Marsigli, Feltrinelli)
“Mentre chi soffriva di altre malattie, dal raffreddore al cancro, era per tutti un individuo colpito da lievi disturbi o gravi aggressioni, il pazzo non era più un uomo, ma era solo la sua malattia; dunque una mostruosità che perdeva, nel sentire collettivo, i tratti distintivi dell’umanità, i suoi diritti fondamentali. Non era oggetto di riflessione, di pietà, di solidarietà, quanto piuttosto di indifferenza o di orrore; appunto una mostruosità più che un uomo, una malattia più che un uomo malato”.
(Basaglia, una biografia, Claudio Magris, Lint editoriale)
Sono arrivato a Trieste nel luglio 1974. Sarei dovuto partire militare nel gennaio del 1973 ma eravamo i primi obiettori di coscienza dopo la legge del 1972, ed ancora il governo discuteva se metterci in prigione, o farci fare i pompieri, o, come chiedevamo noi, farci fare un servizio civile. Prevalse il buon senso, la decisione fu servizio civile, ma con 8 mesi in più del servizio militare, che allora durava 12 mesi: non si sa mai che fossimo dei lazzaroni che semplicemente non volevano fare la naia.
Ho pianto entrando al manicomio. L’ospedale psichiatrico di Trieste era bello, come dirò poi, ma il vedere i matti che giravano, sentire odore di umanità, pensare che avrei passato lì due anni della mia giovinezza, mi scioccò.
E invece fu da subito un’esperienza meravigliosa.
Il manicomio di San Giovanni a Trieste era stato costruito dagli austriaci nei primi anni del ‘900. Prima ancora era stato il parco di caccia di un certo barone Renner, e la direzione del manicomio, un villino, si chiamò da sempre villa Renner. I padiglioni erano quindi belle costruzioni austriache, poste sul versante della collina che dal mare sale verso l’altopiano, una fila di edifici posti nel verde a destra ed a sinistra della strada che saliva.
Prima di Basaglia, arrivato a Trieste nel 1971, a sinistra stavano le donne, ed a destra gli uomini. Entrando dal basso, all’inizio c’erano, a destra ed a sinistra, le due accettazioni, poi i padiglioni in fila, caratterizzati dal tasso crescente di violenza dei ricoverati: i tranquilli, i semi-agitati, gli agitati, e poi, vabbè, i sudici.
Ho lavorato lì, con altri sei obiettori, per 20 mesi. Siamo stati usati come drappello d’attacco, di supporto agli infermieri, prima per aprire il reparto delle donne violente, delle pazze furiose, poi per aprire, per quanto possibile, il reparto dei sudici (questi erano, evidentemente, i più regrediti).
Perché aprire? Franco Basaglia così rispose ad un giornalista che gli chiedeva se esista la malattia mentale: “La malattia mentale esiste, ma il matto che noi fabbrichiamo è il doppio della sua malattia”. Ecco perché distruggere i manicomi come fino ad allora conosciuti e gestiti: per non raddoppiare il già gravissimo danno che la malattia mentale determina, approfittando anche dell’utilizzo degli psicofarmaci che, da qualche tempo, permettevano di tenere sotto controllo gli eccessi comportamentali dei pazienti senza costringerli fisicamente.
Va subito premessa anche un’altra considerazione di primaria importanza, forse la più importante di tutte: Basaglia, uomo di rigorosa formazione scientifica, ha scritto diversi libri, ma è appartenuto a quella categoria di intellettuali che hanno scelto di misurare nella realtà dei fatti la portata delle loro teorie. Nel periodo in cui l’ho frequentato, dal 1974 al 1976, Basaglia viaggiava molto, ma per il resto era il punto di riferimento per tutti gli operatori del manicomio, matti compresi, che lo conoscevano. Soprattutto il manicomio era lì con tutto il suo carico di problemi, e l’opera di Basaglia a Trieste è servita a dimostrare che l’istituzione paracarceraria poteva essere superata, a favore di piccoli centri più agili, più umani. Dai 1.106 ricoverati a Trieste nel 1971, alla fine degli anni 70 i ricoverati erano poco più di cento.
Al reparto O, quelle delle donne agitate, Basaglia assegnò un bravissimo medico, Renato Piccione (molti anni dopo direttore emerito del Dipartimento di salute mentale di Roma E), allora ventiseienne, due obiettori, ed un paio di operatori volontari (Trieste, all’epoca, ospitava volontari provenienti da tutta Italia e dall’estero).
Ogni mattina alle 8 si teneva in reparto la riunione di tutti gli operatori: il medico si informava sulla notte trascorsa, si valutavano le condizioni delle diverse pazienti, una sessantina, si decidevano le diverse occupazioni quotidiane, si parlava di medicine, ma anche di cibo, di sigarette, di abbigliamento. Poi, dopo una mezz’ora o poco più, si usciva dalla riunione, e lì c’erano le matte, c’erano tutte queste povere donne con la loro follia ed i loro dolori.
Uno dei primi argomenti affrontati in riunione fu quello dei pasti, dove al solo cucchiaio allora in uso vennero affiancati coltello e forchetta. Reinsegnammo alle degenti, in diversi casi, l’uso di questi elementari strumenti, introducemmo anche l’utilizzo dei tovagliolini, ed il pasto, con le persone che smisero di mangiare con le mani, cominciò ad essere un momento meno nauseante della vita di reparto. Per un gruppo di degenti più autonome di altre, il pasto, preparato nella cucina centrale dell’ospedale, divenne una fase del tutto autogestita, dalla preparazione dei tavoli, alla spartizione del cibo, alla pulizia finale. Ricordo di un’oligofrenica grave (i matti di normale intelligenza convivevano con le persone con deficit, non era il tipo di malattia ad unirli, ma il grado di violenza da loro espresso nel corso della loro vita istituzionale – e tale scelta non era certo dovuta alla volontà di inserimento degli handicappati) che, da persona abituata a subire per alcuni suoi limiti oggettivi ogni atto che la riguardasse, assunse nuova importanza sia ai propri occhi che di fronte alle altre degenti nel ruolo di colei che distribuiva la minestra alle altre commensali.
Sostituimmo le vestaglie manicomiali con abiti personali, introducendo di conseguenza l’uso dell’armadietto personale, con chiave individuale, che divenne il primo spazio privato di cui le persone dopo lunghi anni poterono usufruire. Si smise così di vedere degenti che deambulavano tenendosi stretti borse o sacchetti dove tenevano chiuse le loro povere cose.
Successivamente fu deciso di tenere, quotidianamente, l’assemblea di reparto, sempre alla presenza di tutti, operatori e degenti. Si discuteva ancora di cibo, di sigarette, di vestiti, ma anche si cercava di affrontare gli episodi della giornata precedente, si cercava di capire il perché di uno sgarbo, di una manifesta sofferenza, di un insulto, di una violenza. Ho incominciato lì a capire che dietro ad ogni episodio non c’era lo sbalzo d’umore, l’atto inconsulto, il raptus incontenibile, ma c’era sempre una motivazione che spesso si riusciva a far emergere. Si iniziò a dare risposte diversificate a problemi individuali diversi. Queste donne, che alcuni mesi prima avevamo inutilmente cercato di far parlare, ponendo loro domande che erano rimaste per lo più prive di risposte, iniziavano pian piano ad aprirsi scoprendo che c’era chi si occupava concretamente dei loro problemi quotidiani e delle loro prospettive di vita.
Si arrivò così ad organizzare le prime uscite, brevi gite in città, alla chiesa di San Giusto, al mare di Barcola, all’altopiano di Opicina, di gruppi più o meno numerosi, con mezzi di trasporto pubblici, o nostri, o dell’ospedale. La gita o anche il semplice giretto in città divennero un momento molto importante. In un primo tempo toccava a noi stimolare le persone perché curassero il proprio aspetto prima di un’uscita, ma in un secondo momento la cura del proprio corpo e del proprio aspetto ridivenne un’abitudine per diverse persone. Andavamo nei bar, nei negozi, nei grandi magazzini a fare spese personali, cercavamo, per quanto possibile, di recarci nei luoghi della città e dei dintorni che avessero rivestito un particolare significato per le persone.
Il maggior risultato di queste gite all’esterno del manicomio fu che si poté dimostrare nei fatti la relatività del concetto di pericolosità. Benché in reparto avvenissero ancora, sporadicamente, episodi di violenza, mai mi capitò di avere la pur minima preoccupazione durante le gite all’esterno con queste persone marchiate come “pericolose a sé e agli altri”.
Fu a questo punto, dopo le assemblee e le gite, che si giunse, attraverso diverse fasi, all’apertura della porta del reparto. Ciò era stato fino ad allora impossibile, perché, per evitare che si registrassero fughe massicce di degenti, bisognava prima diminuire l’angoscia e la brutalità della vita interna del reparto. Netta era stata all’inizio anche l’opposizione delle infermiere a tale novità: aprire le porte significava un radicale cambiamento di mentalità, e comportava un deciso aumento di responsabilità.
Il maggior problema, ampiamente discusso nelle riunioni del mattino, era costituito da due persone che, tuttora angosciate dal loro permanere in reparto, sicuramente all’atto dell’apertura sarebbero fuggite. Furono adottate le seguenti soluzioni. Una delle due, secondo le categorie giuridiche manicomiali dell’epoca, fu trasformata da “coatta” a “volontaria”, riducendo così anche i rischi per la responsabilità di medico e infermiere. Entrambe furono poi assunte come lavoratrici presso una Cooperativa che svolgeva diversi servizi dentro all’ospedale, con dipendenti regolarmente pagati secondo i contratti di lavoro. Il loro ruolo all’interno del reparto assunse quindi tutta un’altra importanza, facendo venir meno l’ansia di fuga. Dopo un inziale continuo controllo e accompagnamento da parte nostra, il rischio di una loro sparizione tramontò.
Dopo sei mesi di intenso lavoro, quando la vita di reparto era ormai radicalmente mutata; quando la violenza era ormai solo un ricordo su cui capitava anche di poter scherzare, e si manifestava solo con rarissimi episodi ormai comprensibili e correttamente gestiti dalle infermiere, indubbiamente maturatesi durante quel periodo di cambiamenti; quando una degente quarantacinquenne, già ricoverata in manicomio in Australia (dove nei primi anni 50 emigrarono circa 10.000 triestini), riportata a Trieste sotto scorta e qui ricoverata per venti anni, fu dimessa per tornare a vivere in famiglia; quando alcune anziane furono accolte in casa di riposo; quando la vita aveva ripreso ad avere un senso, perché le persone potevano, entro certi ovvi limiti, andare e venire liberamente, perché la comprensione e l’attenzione all’altro erano ormai patrimonio di cultura del reparto, fu allora che, con la disponibilità di nuove, articolate strutture, in cui ospitare le diverse persone, fu possibile smembrare definitivamente il reparto O, il reparto delle donne agitate.
Mi piace, in chiusura, ricordare un episodio occorsomi con Fedora C., che nel 1975 stava in reparto da quasi trent’anni. Figlia di un generale, aveva frequentato il liceo classico (sia chiaro, era un’eccezione la presenza di una persona di estrazione borghese, tutti i matti dell’ospedale psichiatrico provenivano dalle classi più povere della popolazione). Rinchiusa poi in manicomio, era, quando la conobbi, già anziana e di pessimo aspetto. Dopo un po’ di frequentazione, iniziò a ridimostrare le buone abitudini di cui era stata intessuta la sua vita prima del ricovero a vita. Una volta la condussi in uno dei bellissimi caffè di Trieste, un bar molto elegante ed aristocratico della vecchia città teresiana. Dopo qualche tempo di attesa per l’ordinazione, stufa di aspettare, Fedora, visto un cameriere che ci passava accanto, sollevò un poco il posacenere di cristallo, facendolo tintinnare sul piano di cristallo del tavolino, ed apostrofò il cameriere: “Garçon!”. Come un fiore che sboccia dall’asfalto, sopra i decenni di bruttezza, di violenza, di follia, di angherie, l’antica raffinatezza di Fedora era gemmata.
Un’idea che smette di essere utopia e diviene realtà, questo ha significato la vita di Franco Basaglia.