di Silvia D’Autilia
Si credeva tutto sommato superato il banale determinismo di matrice ottocentesca (se non preottocentesca) per cui: se folle allora pericoloso. Si credeva. La vicenda di Ragusa ha rappresentato l’ennesima conferma del contrario, della sua persistenza mediatica e culturale.
Ieri i funerali di Loris Stival, il bambino di 8 anni ucciso il 29 Novembre scorso e di cui la madre Veronica Panarello è attualmente la principale indagata. “Solo un folle, un pericoloso folle, può compiere un tale gesto. Un folle che deve essere fermato”, ha affermato il vescovo Urso nell’omelia. Toni perentori. Che non sconcertano solo chi non ha ancora colto la tragedia nella tragedia ascritta a questa drammatica storia. Dice Padre Bettoni, fondatore di Archè, in una sorta di contraltare alle parole del vescovo di Ragusa: “Svegliatevi! Siamo rimbambiti da mille stupidaggini […] Ho letto la storia di questa madre, indagata per l’assassinio del piccolo Loris, ho letto della sua infanzia e delle sue vicende di vita e non ho potuto non pensare che avrebbe potuto essere aiutata ad accettare la sua vita e le sue tensioni e contraddizioni, ma anche a recuperare la sua capacità genitoriale.”
Si fa presto, prestissimo, quando fatti del genere accadono, a giocare la carta della follia o peggio ancora quella della follia macchiata di pericolosità. È un jolly sempre a portata di mano. Un modo rapido e risolutorio di risolvere questioni controverse, drammatiche e contraddittorie. Non si lustra il pavimento coprendo la macchia di unto con una pezza pulita. Non ci sono untori e “puliti” nella società, giacchè l’imprevedibilità dei pensieri e dei gesti umani (ahimè troppo umani!) appartiene a tutti, nessuno escluso. Credere nella diversità dell’altro è un conto da pagare innanzitutto con noi stessi. È una debolezza più nostra che di terzi. C’è sempre una minima coresponsabilità e coappartenenza all’errore altrui, quanto meno nelle dimensioni del dramma, del dolore e del background culturale in cui viviamo. Non si tratta di una giustificazione artificiale e programmata ad un gesto innaturale come l’infanticidio. Al contrario un’obbligata pausa di riflessione, un forzato stop verso la montagna di cenere mediatica che si è accumulata attorno a questa vicenda con la sola finalità di assimilare Veronica Panarello a un mostro lontano dal nostro modo di pensare, agire e vivere. Non più un nome, non più un cognome, non più una persona, un mostro appunto, che per riflesso non può essere donna e madre. Ma madri non si nasce, si diventa, in una dimensione tutta eventualistica della vita, così intasata di accadimenti, necessità e contraddizioni, da sbarrare la strada a qualsiasi aprioristico pregiudizio.
Eppure il pre-giudizio sembra essere l’unica tara di tutta questa storia: un chiacchierìo noioso, costruito per riempire talk-shows di benpensanti e benparlanti, che nella corsa all’additare il colpevole, lasciano indietro dolori e conflitti fittamente intrecciati in questo dramma. Ma non è questa la sede per ripercorrerne la trama; non è questa la sede per enumerare bisogni e difficoltà con cui questa donna deve aver fatto i conti negli anni. Sarebbe troppo semplice farlo adesso, quasi per cercare delle attenuanti. Purtroppo queste tragedie son sempre le ultime ed esasperate grida d’aiuto. Non sono mai gesti infondati, senza una storia o un’umanità. Si dà il caso che sia estremamente umano anche sentire il peso dell’abbandono, la non accettazione dei propri limiti e l’irrisoluzione delle proprie debolezze: in soccorso a queste fragilità dovrebbe (forse preventivamente!) arrivare l’assetto sociale e istituzionale, al fine di mettere in moto un reale processo di presa in cura e aiuto. Invece siamo di fronte all’ennesimo fatto di cronaca nel quale sul perché è prioritario il come; sulla storia l’accanimento mediatico; sul dolore il terrorismo psicologico. Come se non fossimo tutti parimenti coinvolti, come se non fosse un dolore della civiltà, prim’ancora che un’urgenza informativa. C’è una forma d’informazione, forse neanche più degna di questo nome, che è pura speculazione sul dolore. Che non informa, dilata. Che non comunica, sfuma. Che non innesca programmi preventivi contro la reiterazione dello stesso, ma incoraggia sentimenti di odio nei confronti di chi “come noi non è”. È col chiacchierìo del “si pensa”, “si dice”, “si fa” che perdiamo man mano di vista la polimorfia e le numerose sfaccettature che lo stare al mondo implica, nelle sue azioni quotidiane e in quelle impreviste. È chiacchiera che addormenta, che anestetizza la consapevolezza della nostra globale identità civile e comunitaria. Che non ci fa sentire più dolore, come se riconoscere il colpevole e saperlo condannato fosse la panacea di tutti i nostri mali. La nostra sola preoccupazione.
Che il responsabile debba pagare è ovvio. Che il responsabile di un gesto così incomprensibile sia necessariamente folle una conclusione grossolana. Che il folle sia necessariemente pericoloso un clamoroso errore di giudizio, in forza del quale non si fa altro che confermare meccanismi di esclusione, senza evitare la drammatica ripetizione dell’uguale.
1 Comment
Psichiatria di comunità a Santa Croce Camerina
A quanto raccontato, le indagini per ricostruire quanto accaduto quella tragica mattina di novembre al povero Loris Stival hanno potuto avvalersi, più che delle testimonianze delle persone che vi abitano, dei filmati delle telecamere che registrano tutto quello che accade nelle strade e nelle piazze di Santa Croce Camerina, 24 ore su 24. L’amministrazione comunale di Santa Croce Camerina, avvalendosi di fondi europei, ha infatti “messo in sicurezza” il paese piazzando sensori e telecamere che riprendono tutto quanto accade per le vie del villaggio. Tuttavia, nella circostanza, quanto registrato non è riuscito a sciogliere i dubbi, a chiarire le dinamiche dei movimenti delle persone sulle scene del delitto.
Chi conduceva le indagini si è lamentato di una collaborazione scarsa, ai limiti dell’omertoso, degli abitanti. Si potrebbe rispondere che se è tutto filmato, non c’è bisogno di spendere parole; se tutto è filmato la sicurezza collettiva e individuale è data dalle telecamere in funzione e non c’è bisogno di “curiosare” nei fatti e nei comportamenti dei compaesani. La vicenda dimostra che, specie in un piccolo villaggio, la sicurezza delle persone è garantita dalla intensità e dalla qualità delle relazioni sociali più che dalle tecnologie.
Loris era un bambino che, pare, andava malvolentieri a scuola alle elementari del paese del Ragusano. Pare che una volta diventato un “angelo”, la scuola che frequentava non abbia niente da raccontare: la questione non è se e quanto Loris fosse “disadattato” e per quali ragioni, ma che cosa la scuola che frequentava abbia fatto per diventare un luogo dove Loris si trovasse il più possibile a suo agio personalmente e con i coetanei, potesse dire le sue ragioni, essere ascoltato. In modo da andarci volentieri.
Nella vicenda della sua tragica morte violenta di Loris i mezzi di informazione hanno accentrato l’attenzione sulla figura, e le responsabilità della madre che pare abbia vissuto da adolescente esperienze dolorose, passate all’attenzione dei servizi psichiatrici. Non si è parlato sui media di quali e quante relazioni, attenzioni i servizi abbiano mantenuto sulla giovane donna: la questione non è se la mamma sia “folle”, ma cosa abbiano fatto i servizi deputati alla salute mentale per sostenere lei e la sua famiglia negli eventuali momenti di difficoltà.
Il vescovo di Ragusa, non certo un buon pastore nella circostanza, ha fatto sentire “innocenti” e non responsabili, sane di mente tutte quante le altre sue pecore. Con la sua invettiva ha sepolto sotto le macerie del pregiudizio e dell’ignoranza la fatica della solidarietà e la ricerca della verità delle persone.
Luigi Benevelli
Mantova, 4 gennaio 2015