(da Aut Aut, Luglio-Settembre 2011 nr. 351)
In un libro intervista del 2008, Giovanni Jervis, uno dei protagonisti della psichiatria critica italiana negli anni sessanta e settanta, dopo avere associato Franco Basaglia a Michel Foucault (entrambi elaborarono – dice – “una teoria dell’esclusione sociale e della manipolazione del consenso”[1]), viene invitato dal suo intervistatore (lo storico della medicina Gilberto Corbellini) a esprimere un giudizio sulle posizioni di Foucault, e risponde così: “Parlare di Foucault è difficile. È stato un intellettuale di grande statura e nessuno nega il suo ruolo nella cultura del Novecento; tuttavia le sue idee sono rimaste controverse e se lo prendi come filosofo della devianza non sono sicuro che il suo contributo sia stato del tutto positivo. Certo non si può negare una cosa: l’influenza del suo pensiero sulla cultura italiana è stata considerevole, e aspetta ancora oggi di essere esaminata con qualche cura. I suoi inizi furono un po’ in sordina: io ricordo che nel 1961 la sua Storia della follia suscitò qualche interesse anche al di qua delle Alpi ma, al tempo stesso, varie perplessità. Nella prefazione alla prima edizione francese egli sosteneva la tesi antipsichiatrica più tipica, cioè che la follia è un ricettacolo di verità; nell’insieme quel volume non era, come forse poteva sembrare, uno studio storico condotto con scrupolo di oggettività ma piuttosto una lunga dissertazione non priva di un suo spirito battagliero, a carattere anti-cartesiano e anti-illuminista”.[2]
Un po’ in sordina, la tesi antipsichiatrica più tipica, uno storico poco oggettivo, una posizione anti-illuministica… Ce ne sarebbe già abbastanza! Ma Jervis rincara la dose: parla di un radicalismo “elegante ma anche lievemente ossessivo”, di scarsa originalità, di civettamento con le avanguardie letterarie (surrealismo), di uno studioso cui certo premevano il documento d’archivio e la sua concretezza ma che era incapace di governare l’impulso alla forzatura “ideologica” dei fatti storici. Non tralascia di ricordare le critiche “pungenti” di Carlo Ginzburg, espresse all’indomani dell’uscita della Storia della follia, e conclude dicendo che “delusione” è la parola giusta per riassumere ciò che accadde dopo, quando inutilmente si attese che Foucault arricchisse il suo discorso di una “solida capacità teorica”, al punto che “uno psichiatra avvertito non poteva che constatare come Foucault trattasse i problemi della psichiatria in modo superficiale”.[3]
Ho conosciuto personalmente e ho potuto apprezzare, come tanti, Giovanni Jervis, da poco scomparso. Fu accanto a Franco Basaglia nella straordinaria esperienza di Gorizia, poi prese altre strade e si discostò dalla psichiatria, pur restando sempre una voce di sinistra molto ascoltata, perfino fastidiosa nella sua intolleranza critica verso le cosiddette ideologie. Un giorno qualcuno dovrà pure scrivere un libro serio sul suo tortuoso rapporto con Basaglia. Qui me ne servo solo come sintomo molto eloquente di un diffuso fraintendimento: di come, nella cultura italiana, abbia potuto prodursi una cattiva lettura della Storia della follia di Foucault: da subito e poi nei decenni successivi fino a oggi. Una lettura “cattiva”, essa sì completamente ideologica, che ha reso molto faticoso l’impiantarsi di quella “buona” lettura che, grazie anche allo stesso Basaglia, ha potuto comunque prendere piede e affermarsi nelle pratiche e nelle riflessioni. Soltanto adesso stiamo infatti scoprendo (e sembra proprio che ci siano voluti cinquant’anni!) quale sia stato l’impatto decisivo che il pensiero di Foucault ha avuto (e continua ad avere) sulla consapevolezza critica della società in cui tentiamo di navigare, spesso a vista. E come l’atto inaugurale di questo impatto, proprio le analisi sulla genealogia dell’idea di salute mentale, costituisse la rottura di tanti cliché ormai incistati, un gesto che rivoluzionava il potere dei pregiudizi e che forse arrivava con troppo anticipo sul mondo comune di pensare, intellettuali di sinistra compresi.
Appunto, gli inizi avvennero “un po’ in sordina”, ma chi erano i sordi? Isolate orecchie filosofiche (Jacques Derrida, Maurice Blanchot, Michel Serres e pochi altri) compresero che con la pubblicazione della Storia della follia, nel 1961, si produceva un evento molto significativo ma, poiché Foucault non era precisamente un filosofo, lo stesso mondo filosofico, con poche eccezioni, girò le spalle come se la faccenda non lo riguardasse, e parlo soprattutto della Francia. Altrove nessuno prestò ascolto, e tutti si animarono solo qualche anno più tardi quando Jean-Paul Sartre stigmatizzò l’antiumanismo di Le parole e le cose (1966) e Foucault poté finalmente essere inserito in un contesto, cioè nella stagione dello strutturalismo.
Quanto al mondo della psichiatria, e in particolare di quella psichiatria critica (sociale, comunitaria) che allora parlava soprattutto inglese, Foucault non vi trovò, durante l’intero decennio dei sessanta, alcuna cittadinanza. E se veniamo all’Italia, nell’Istituzione negata, che documenterà nel ’68 con grande clamore il lavoro di rottura compiuto da Basaglia e dalla sua équipe nel manicomio di Gorizia, non troviamo alcuna traccia della Storia della follia. E se poi andiamo anche a leggere gli scritti più teorici del Basaglia di quegli anni (di un Basaglia che introduceva nell’asfittico scenario della psichiatria istituzionale l’aria critica che gli proveniva dalle sue letture filosofiche, uno per tutti il saggio del 1965 Corpo, sguardo e silenzio[4]), vi troviamo soprattutto un certo esistenzialismo umanistico alla Sartre, cioè un’attenzione concentrata sull’esperienza dell’“altro” come costitutiva dell’“enigma” della soggettività.
Quest’ultima era la vera posta in gioco, teorica e pratica, della cultura che porta allo scoppio del ’68 (che – lo ricordo – fu un evento mondiale). Vi confluivano le pagine del “giovane” Marx sull’alienazione, gli effetti della Scuola di Francoforte (la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, ma non solo), la Critica della ragion dialettica di Sartre, a produrre e alimentare la coscienza critica e politica non solo nei comparti umanistici delle università, ma in tutte quelle pratiche sociali di “liberazione” che unificarono un’intera generazione con un’osmosi intellettuale e un trascinamento reciproco senza precedenti (e senza una posterità altrettanto unificante).
Foucault si collocava, all’apparenza, fuori da questo orizzonte: sembrava cancellare proprio ciò che interessava di più, cioè il significato e la condizione della soggettività repressa e negata. Di lui si conobbe quasi esclusivamente la sentenza ultranietzschiana che decretava la “morte dell’uomo” e che chiudeva Le parole e le cose. Nessuno si era precipitato a leggere la Storia della follia, e tanto meno fu indotto a farlo dopo che tale sentenza divenne l’etichetta del pensiero di Foucault. Niente di “marxiano” poteva venirvi attinto (da cui il rifiuto dello stesso Ginzburg) e quindi trovare ospitalità nel bagaglio critico di allora. Così la Storia della follia non sarebbe mai entrata nell’equipaggiamento mentale dell’intellettuale militante che progettava di costruire una società diversa. È curioso notare, nello stesso giudizio-sintomo di Jervis, la compresenza tra uno sguardo molto pesante sulle semplificazioni del ’68 e la ripetizione degli stessi motivi, della stessa sordità (quasi mezzo secolo dopo!), che caratterizzarono “da sinistra” il completo silenzio su Foucault, come se vivessimo ancora oggi in quel medesimo clima culturale e il tempo si fosse, per così dire, fermato.
Per sbloccare un simile sguardo, alquanto schizoide tuttavia molto diffuso e adesso sostenuto da una pretesa di scientificità per cui la malattia mentale ha da essere semplice oggetto della medicalizzazione e va quindi sottratta a ogni “letterarietà” gratuita, mentre la parola “follia” si è come evaporata o trasformata in un flatus vocis vuoto e solo ideologico, in un inciampo del linguaggio comune, bisogna avere la pazienza di mettere un po’ di ordine nella sequenza che vorremmo archiviare alla svelta, fingendo che il protagonista di tale sequenza non si identifichi con la parola chiave di tutto il pensiero (di tutta l’azione di pensiero) messo in campo da Foucault. Se cancelliamo il fatto che per lui, e fin dall’inizio, tutto si gioca attorno alle pratiche di potere e dunque alla questione del potere, rischiamo di accodarci a un colpevole elogio dell’ignoranza. Potere di escludere, potere della psichiatria e dello psichiatra sulla malattia mentale e dunque sulla follia stessa.
Ci saranno ancora libri, saggi e fiumi di parole che discetteranno se Foucault sia stato un filosofo, uno storico o qualcosa d’altro. Chi ha tempo da perdere in ciò (e ripeto: non sempre è un’innocente perdita di tempo), si accomodi nei molti convegni e nelle varie palestre para-accademiche. Nessuno, però, potrà pretendere di negare (sarebbe un piccolo caso di revisionismo) che il “grande internamento” descritto da Foucault nel 1961 sia un dato di fatto storico e insieme una scena madre cui sono succedute, nel corso dei secoli, innumerevoli ripetizioni fino a oggi, quasi che l’isolamento e la separazione forzosa dei “diversi” rappresentino, per ogni società, una necessità inderogabile.
Foucault ci racconta questo internamento, ne descrive le pratiche, e da qui comincia a pensare. La Storia della follia non parte da un’idea di uomo o di soggetto, ma da un insieme di pratiche unificate da un gesto di potere, e ci mostra come proprio da qui, come effetto di queste pratiche, si producano un’idea di uomo e di soggetto. Interessa poco sapere se agisca da filosofo o da storico. Interessa molto, invece, evidenziare e tenere ben fermo che all’inizio stanno precise dinamiche di potere e che il suo è un “no” a ogni filosofia della storia, a ogni filosofia che voglia cavalcare (o scavalcare) la storia.
Il silenzio al quale viene ridotta la follia e il potente discorso della psichiatria sulla malattia mentale sono per Foucault la base della vicenda che il nome di “potere psichiatrico”, già tutta implicita nella Storia della follia, poi esplicitata in numerose altre occasioni (è un tema mai abbandonato che attraversa la sua intera opera), e soprattutto analizzata nel corso tenuto al Collège de France tra il 1973 e il 1974, cui si collegano strettamente e cronologicamente l’altro corso sugli “anormali” e il notissimo dossier intitolato a Pierre Rivière.
Dunque, eccoci nella prima metà degli anni settanta. Ronald Laing e David Cooper erano diventati nomi molto conosciuti. “Antipsichiatria” era la parola che accomunava un’onda culturale che si diffuse un po’ dovunque. Ci si chiedeva perché la “follia” avesse perso la sua voce e se era il caso di restituirgliela e anzi di valorizzarla, e come si poteva forzare la psichiatria istituzionale per rompere questo silenzio. Dopo Gorizia e una breve pausa, Basaglia aveva dato inizio alla propria “rivoluzione”, scardinando e aprendo il manicomio di Trieste. E fu allora che si cominciò finalmente a leggere la Storia della follia, accorgendosi del colossale equivoco culturale e teorico che l’aveva relegata nel dimenticatoio, come se il lavoro di Foucault non potesse incontrarsi con le politiche della soggettività che avevano riempito il pensiero del ’68.
Adesso, erano proprio queste “politiche” che esigevano un’analisi del potere e della sua microfisica, e specificamente del “potere psichiatrico”, di cui Foucault aveva ricostruito nel ’61 la genealogia come avamposto di un dispositivo disciplinare che poteva trovare nella malattia mentale un esempio e un collettore valido per l’intera società. Fu chiaro a tutti che il manicomio era una posta in gioco che andava molto al di là dei problemi della psichiatria e della loro localizzazione, e che investiva l’idea stessa di società, l’idea stessa di potere, e dunque anche tutte le pratiche della cosiddetta “normalità”.
Così Basaglia, l’uomo delle pratiche, scoprì Foucault e ne fece un importante alleato intellettuale (alleanza ben documentabile a partire dagli anni settanta), e così lo stesso Foucault si precipitò a leggere L’istituzione negata (subito tradotto in francese) e ne diede testimonianza nelle pagine che costituiscono il “riassunto” del corso sul potere psichiatrico e furono poi pubblicate in margine a quelle lezioni.[5] Strano riassunto, perché gli esempi tratti dalle esperienze contemporanee di critica radicale alla psichiatria sono evidentemente ulteriori rispetto alle analisi sulla nascita e lo sviluppo del potere psichiatrico nell’Ottocento e trovano scarso riscontro nelle lezioni. Più che un riassunto si tratta di un rilancio nel dibattito caldo del presente, un’“uscita” di Foucault dal suo stesso terreno di ricerca allo scopo di far capire a chi lo ascoltava che il fuoco della battaglia era lì, sotto gli occhi di tutti, e che lui lo sapeva bene.
Poco prima, in una conferenza tenuta a Montréal nel maggio 1973 (tradotta in questo stesso fascicolo di “aut aut”), aveva anticipato le sue considerazioni sulle lotte in corso nell’ambito della psichiatria. Proprio nel momento in cui Foucault tira le somme della Storia della follia, a più di dieci anni di distanza, e lui stesso si colloca senza alcuna reticenza nello scenario delle lotte e delle pratiche in atto, nella convinzione che gli strumenti critici che ha in mano siano spendibili dai protagonisti di quelle lotte, e anzi siano indispensabili per nutrirle di un’adeguata analisi dei dispositivi di potere che esse vogliono intaccare, ecco prodursi la possibilità di un nuovo fraintendimento, i cui effetti arrivano fino a oggi.
Foucault alleato dell’antipsichiatria. Foucault che vuole distruggere la psichiatria. Foucault, l’“ideologo” di una radicale cancellazione, che si batte per una cultura irrazionalistica, sessantottesca, antiscientifica. Capitolo chiuso, almeno per coloro che arriveranno molto più tardi e vi troveranno buoni motivi per riseppellire la Storia della follia ed esonerarsi dal leggere con attenzione la sua prosecuzione, cioè Il potere psichiatrico.
È giusto chiedersi se l’“uscita” di Foucault, nelle pagine che ho ricordato (e alle quali, ora, vorrei riferirmi più nel dettaglio), non sia stata un po’ incauta o non abbastanza perspicua. Si può discuterne, ma è fuori discussione il fatto che la parola “antipsichiatria” circolava allora con un senso teorico-politico molto diverso da quello attuale. Allora indicava un fascio di pratiche di liberazione, un orizzonte critico e politico dentro cui andavano ritagliate delle distinzioni (ed è quello che fa anche Foucault), ma che pure, nell’insieme, costituivano un terreno di sperimentazioni e di battaglie contro il controllo psichiatrico. Oggi il termine “antipsichiatria” è diventato a tal punto penalizzante da oscurare quelle stesse pratiche da cui era emerso e da coincidere con uno stigma culturale, confuso e astratto, tuttavia capace di minorizzare e perfino rifiutare un intero movimento di idee, estendendo le punte più radicali di esso a tutto il contesto e inghiottendo in una sorta di censura storica tanto il pensiero di Foucault quanto le pratiche di Basaglia. Entrambi verranno precipitati nel sacco dell’antipsichiatria sul quale applicare l’etichetta di idealismo velleitario e postromantico e di cui liberarsi alla stregua di un rifiuto tossico. Niente di più falso per chi ne sa qualcosa con cognizione di causa, eppure occorre difendersene per non rimanerne contagiati. Basaglia antipsichiatra fa sorridere, se non fosse che occorre ogni volta smontare lo stigma a suon di fatti e di effetti, magari solo per salvare il significato e l’importanza di quella legge che porta il suo nome e che da decenni si cerca di svilire e anche azzerare con ogni sorta di dossieraggi che talora rasentano l’infamia.
E Foucault? A Foucault non si perdona lo smontaggio del dispositivo psichiatrico, il fatto di avere dato evidenza a quel discorso di potere che la ragione ha tenuto per secoli sul non discorso della follia, e su tutti quegli uomini e quelle donne che la parola “folli” ha radunato e rinchiuso per escluderli dal diritto di parola e da tutti i diritti di soggettività che vi si collegano. A Foucault non si perdona di aver dimostrato che la storia della follia è stata in realtà la storia di come si è steso un silenzio sulla follia, al posto della quale si è cominciato a far parlare la malattia mentale con le parole sempre più “scientifiche” del sapere medico. Quello che infine si imputa, allora, a Foucault è di aver reso evidente come quell’esperienza storica, sociale e umana che si chiama follia sia stata evacuata dai nostri regimi di verità, e sostituita da un sapere molto potente che si chiama medicalizzazione, dove appunto il potere è quello della medicina e del medico, mentre il non potere è sempre più dalla parte del “malato” e tendenzialmente, sull’intera società, si diffonde un paradigma, la medicalizzazione, che omologa non solo i “diversi” ma tutti i soggetti, compresi i normali, nella condizione della malattia e nella sottomissione al potere medico. Se è vero che di ciò si fanno le prove nell’addomesticamento storico della follia, e se questo è l’esito cui sospinge la violenza implicita nel potere psichiatrico, si capisce molto bene perché Foucault ha alimentato tante paure, rifiuti e censure.
Ma andiamo a verificare come ha adoperato la parola “antipsichiatria” e quali sono i significati che vi ha affidato. Foucault comincia con il disegnare schematicamente due differenti tipi o fasi di un processo di de-psichiatrizzazione che prende piede alla fine dell’Ottocento, quando si iniziò a “‘pasteurizzare’ l’ospedale psichiatrico”.[6] È la forma “asettica” della de-psichiatrizzazione: “L’ospedale può così diventare un luogo silenzioso, in cui la forma del potere medico si mantiene in quel che ha di più essenziale, ma senza che debba incontrare e affrontare la follia in quanto tale”.[7] Ne seguiranno la psicochirurgia e la psichiatria farmacologica, ed eccoci d’un balzo nello scenario di oggi.
Contemporaneamente si fa strada una seconda forma di de-psichiatrizzazione, “di segno opposto” dice Foucault, improntata alla libertà discorsiva e alla “regola del divano”, leggi psicanalisi: qui si esce dallo spazio manicomiale e si mira a ottenere nel modo più “intenso” la produzione della follia “nella sua verità”, ma al tempo stesso viene ricostituito, pur spostandolo, il potere medico. Dunque Foucault pensa che la seconda grande mossa della de-psichiatrizzazione consista nella pratica della psicanalisi, e conferma i dubbi già palesati alla fine della Storia della follia: certo, bisogna “essere giusti con Freud” ma nella psicanalisi viene mantenuta l’“anima” della medicalizzazione, almeno fino a parola contraria. Poco dopo, nella Volontà di sapere (1976), Foucault renderà più robusta quest’“anima, vedendovi il risultato di un più di potere che viene da molto lontano e si deposita nella fabbricazione di un “individuo” capace di autosorvegliarsi attraverso il racconto di sé. Si scatenerà così un’aspra polemica, oggi non certo sopita.
Nella sua ricostruzione, l’antipsichiatria emerge storicamente come una variegata reazione a queste due forme di de-psichiatrizzazione: restando all’interno dell’ospedale psichiatrico, tenta di trasferire al “malato” il potere e la verità della sua cosiddetta “malattia mentale”. Foucault non ha dubbi: ciò che qui entra in gioco non è “il valore di verità della psichiatria” ma la lotta contro l’istituzione manicomiale come protezione sociale verso il “disordine” provocato dai “folli” e quindi come terapia dell’isolamento necessario. Sono i vecchi precetti di Esquirol, contro i quali Foucault adopera proprio parole che prende da Basaglia: “Il puro potere del medico aumenta vertiginosamente – da Esquirol in poi – proprio perché diminuisce quello del malato che, per il fatto stesso di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico, diventa automaticamente un cittadino senza diritti, affidato all’arbitrio del medico e degli infermieri, che possono fare di lui ciò che vogliono”.[8] È su questa base che Foucault considera e differenzia le varie forme di antipsichiatria (citando Szasz, l’esperienza di Kingsley Hall, quella di Cooper nel famoso “padiglione 21”), cioè come tentativi di de-istituzionalizzazione e di lotta contro “il potere e il diritto assoluto della non-follia sulla follia”: l’obiettivo di tali lotte, per Foucault, è esplicitamente quello di “invalidare la grande trascrizione della follia nella malattia mentale” avviata nel secolo xvii.
Siamo abissalmente lontani dall’idea di antipsichiatria che oggi viene fatta circolare in modo apertamente strumentale, per invalidare l’intero lavoro di Foucault schiacciandolo su un fondale di “irrazionalismo”. Ma quale irrazionalismo? Se ce ne è uno, si tratta invece della maschera di violenta “razionalità” che Foucault aveva denunciato lungo tutta l’analisi sviluppata nella sua Storia della follia, a partire da quelle prime righe della premessa (poi tatticamente messa da parte, ma di cui oggi possiamo valutare tutta l’importanza[9]) in cui dice che c’è un’“altra” follia che ha preso piede storicamente vestendosi dei panni della normalità e della scientificità: la “follia della non-follia”, cioè la nostra, quella della psichiatria scientifica, almeno nella misura in cui essa crede di avere un comando assoluto sui folli e sul loro diritto di essere soggetti.
Quest’“altra follia” si incarna nella forma singolare di un potere-sapere della “conoscenza” relativa alla condizione della follia e dei folli, e ricordo che l’obiettivo che Foucault si dà a partire dal ’61, e che mantiene fino alla conclusione del suo lavoro, è quello di dar corpo alla possibilità che la verità della follia si produca in forme diverse da un “rapporto di conoscenza”. Sarà magari rapido lo sguardo che Foucault rivolge alle lotte anti-istituzionali che stanno avvenendo attorno a lui, ma molto precisa è la direzione teorica e critica che assume, insomma la sua presa di partito storica, culturale e politica, alla quale aveva fornito una genealogia estremamente ricca e direi decisiva nella Storia della follia, e che sviluppa nel successivo Potere psichiatrico, negli interventi minori,[10] ma anche laddove non parla direttamente di follia e psichiatria, cioè, in definitiva, nell’intero laboratorio della sua ricerca. (Basterebbe, poi, rispondere seriamente alla domanda: perché mai Foucault mette in atto una sorta di “identificazione” con la supposta follia di quell’oscuro contadino pluriomicida di nome Pierre Rivière?)
Concludo con una preghiera rivolta ai detrattori di Foucault, di cui volevo far emergere qui la non innocente ignoranza e la cattiva coscienza, e ai quali mi sono specialmente rivolto con queste mie note nella speranza che si degnino di leggerle se non altro perché si parla di loro. Li pregherei di meditare su alcune righe di Foucault, quando, alla fine di quel riassunto del corso sul Potere psichiatrico che ho ricordato, fa sentire la voce, quasi la personificazione di tale potere, che dice con estrema chiarezza al “malato mentale”: “Conosciamo abbastanza cose – cose che tu neppure sospetti – sulla tua sofferenza e sulla tua singolarità, per riconoscere che si tratta di una malattia; ma conosciamo abbastanza anche tale malattia per sapere che su di essa e rispetto a essa tu non puoi esercitare alcun diritto. La nostra scienza ci permette di designare la tua follia come una malattia, e grazie a ciò noi, in quanto medici, saremo i soli a essere qualificati a intervenire e a diagnosticare in te una follia che ti impedisce di essere un malato come gli altri. Sarai, pertanto, un malato di mente”.[11]
Da “aut aut”, 351, luglio-settembre 2011, pp. 24-35.
[1]. G. Corbellini, G. Jervis, La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 95.
[2]. Ivi, p. 96.
[3]. Cfr. ivi, pp. 97 e 98.
[4]. Cfr. ora in F. Basaglia, L’utopia della realtà, a cura di F. Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 2005.
[5]. Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974) (2003), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 285-298.
[6]. Ivi, p. 294.
[7]. Ivi, p. 292.
[8]. Ivi, p. 294.
[9]. Ho esaminato nello specifico la questione nel mio La follia in poche parole, Bompiani, Milano 2000, 20083.
[10]. Per averne un’idea cfr. M. Foucault, Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, a cura di M. Bertani e P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 2006.
[11]. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 295.