978-88-7223-269-9di Michele Zanetti [1]

Daniele Pulino ci propone un libro che senza esitazioni può essere definito utile. Ogni scrittore per verità scrivendo presume che quanto scrive sia di utilità, anche se il fine verso cui l’utilità è tesa ovviamente può divergere. Nel caso di “Prima della legge 180 – psichiatri, amministratori e politica (1968/1978)” l’utilità consiste nel mettere a disposizione degli interessati un gran numero di informazioni minuziosamente raccolte e scrupolosamente ordinate su quanto è avvenuto nel decennio precedente l’approvazione della legge 180. Diversamente da quanto fatto da Valeria Babini in “Liberi tutti”, in questo testo non  viene offerta un’interpretazione di tutti quegli eventi che, in tal modo, sembrano procedere a macchia di leopardo.

Essendo stato attivamente testimone e partecipe durante quel periodo posso dire, a parziale correzione di ciò, che un tenue filo di collegamento si era formato fra le varie esperienze da parte degli amministratori. Non certamente in maniera significativa ciò avveniva fra gli psichiatri, scarsamente coordinati fra di loro. Quanto alla politica in senso stretto – quella dei partiti – si può soltanto dire che il contributo dato alla preparazione della riforma non è stato molto importante, se si eccettua l’ispirazione affidata agli amministratori di migliorare ( ma con quanta convinzione e consapevolezza dei tanti nodi da sciogliere? ) la condizione dei malati di mente. Nei confronti degli psichiatri prevaleva la volontà di inquadrarli, se non proprio di tesserarli, senza affrontare con essi un’effettiva dialettica, probabilmente perché  si riteneva che essi dovessero pacificamente entrare nello schema dell’istituendo servizio sanitario nazionale, ignorando la necessità di un profondo e radicale mutamento dei servizi di salute mentale, proprio quale condizione necessaria alla loro partecipazione alla riforma. Nel partito comunista poi si affermava la pretesa  di guidare tempi e persino modi di riforma: esemplare a questo proposito fu il conflitto tra Basaglia, che dirigeva l’OPP  di Colorno ed il PCI emiliano, conflitto che viene raccontato da Pivetta nella sua biografia dello psichiatra e che si sarebbe ripetuto a Trieste nella fase conclusiva della riforma.

Per giungere a quanto mi è possibile testimoniare più direttamente e che riguarda il contributo degli amministratori alla preparazione della riforma, va ricordato che il loro ruolo, pur importante non avrebbe comunque potuto sovvertire l’orientamento che il direttore avesse deciso di dare alla gestione dell’ospedale e che pertanto senza il contributo determinante degli psichiatri ogni sforzo, anche lodevole, di rendere migliore la condizione dei ricoverati sarebbe stato destinato a rimanere all’interno della logica istituzionale del manicomio ed in definitiva di supportarla. Di conseguenza l’oggetto dell’attività degli amministratori si limitava perlopiù a sovraintendere all’assunzione degli infermieri e degli inservienti e alla gestione degli appalti per la fornitura dei beni e dei servizi necessari allo stabilimento manicomiale.  Tuttavia dal fronte degli amministratori emerse una volontà di riforma che fu confermata dal direttivo dell’Unione delle province italiane (Upi) e confermato   nel convegno di Trieste nel 1974 al quale partecipò la grande maggioranza delle province italiane ed anche l’Associazione nazionale delle Opere pie  il cui presidente portò l’adesione dell’associazione  alla volontà di riforma. Seguirono numerosi altri convegni sempre molto partecipati e dal dibattito intenso che come Upi tenemmo in varie province italiane. Tra gli altri quello delle province calabresi  a Reggio nel quale non riuscì il tentativo di far abbandonare il progetto di costruzione di un nuovo manicomio a Girfalco, o quelli di Macerata e di Torino, ove ebbe luogo un affollato convegno nella sede del Museo di arte moderna che si concluse a notte fonda. Uno dei temi minori ma pur sempre ricorrenti in questi convegni era anche l’invito alle province di farsi maggior carico dei propri cittadini sofferenti contrastando quella transumanza di malati di mente che produceva una complicata rete di pagamenti di spedalità fra le province stesse e contribuiva alla perdita dell’identità del malato, togliendogli l’appartenenza al proprio territorio e alla propria collettività in maniera aggiuntiva a quanto già produceva la detenzione forzata nel manicomio. Un tanto ho voluto evocare per certificare l’esistenza in quegli anni di un filo seppur tenue che collegava  le varie esperienze.

In conclusione va però aggiunto che in tutte queste circostanze Basaglia e io stesso andavamo a sostenere, non per tatticismo, ma con grande convinzione che non si voleva proporre un modello preconfezionato da esportare nelle varie province, perché la riforma doveva realizzarsi in base alle singole esperienze, con le risorse e le competenze professionali disponibili in loco anche se tutte dovevano orientarsi alla difesa della dignità e dei diritti e al rifiuto del manicomio e della sua perversa logica istituzionale.

Trieste, febbraio 2017


[1] Michele Zanetti è stato Presidente della Provincia di Trieste. Chiamo a dirigere l’Opp di San Giovanni Franco Basaglia

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