“S’unn’a finisci ti mannu a Barcellona”. Il detto popolare è perentorio: se non la smetti di rompere… ti mando in manicomio. E in Sicilia il manicomio criminale è stato a Barcellona Pozzo di Gotto, quello che dopo la riforma Basaglia del 1978 eufemisticamente si chiama Ospedale Psichiatrio Giudiziario, sigla OPG.
Ce ne sono altri cinque in Italia, ad Aversa (un “lager”), Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere. Condannati per i favori resi a mafiosi ed affini, i direttori di Napoli ed Aversa si sono suicidati. Il primo marzo di quest’anno i manicomi-carcere avrebbero dovuto chiudere per far posto ai miniOPG, piccole strutture residenziali adibite alla cura, l’assistenza e la custodia dei detenuti infermi di mente, ma per non smentire le buone abitudini italiche non sen’è fatto niente. Chiusura prorogata al prossimo primo aprile, ma nessuno ci crede.
La “liberazione” dei manicomi criminali l’aveva voluta fortemente la legge scaturita dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Ignazio Marino, che dappertutto ha trovato situazioni indegne del vivere civile: detenuti o internati (cioè uomini e donne prosciolti, ma “bisognosi di cura” a vita) costretti in letti di contenzione, umiliati nel corpo tra le loro feci e urine, nutriti a pane e acqua, pasta lessa e frammenti di marmellata. Un ”orrore medioevale” l’ha definito il presidente Napolitano e qualcuno ha capito. A Barcellona per esempio, la musica è improvvisamente cambiata, ma nel giugno 2010 Marino vi aveva trovato “un uomo nudo legato con delle garze, usate come corde, a un letto di ferro con un buco arrugginito al centro che serviva per la caduta degli escrementi e delle orine, uno che sta dentro perché venticinque anni prima si è vestito da donna ed è andato davanti ad una scuola, e un ragazzo catanese che nel 1992 ha fatto una rapina da settemila lire a un’edicola fingendo di avere una pistola in tasca. Gente abbandonata a se stessa in una specie di discarica sociale”.
Ma adesso a liberare la Sicilia (e gli altri cinque OPG) arriva Marco Cavallo. Sbarcherà domenica mattina a Palermo, sfilerà per la città, incontrerà Crocetta, Orlando e l’assessore regionale alla sanità, Laura Borsellino. In sella al grande cavallo alto tre metri Peppe Dell’Acqua, storico braccio destro di Franco Basaglia, da cinquant’anni (dunque non ha ancora smesso) alla testa delle battaglie per la chiusura di ogni manicomio ed il riconoscimento dei diritti di cittadinanza e cura agli infermi mentali, e Stefano Cecconi, responsabile welfare della Cgil, sindacalista di grandissima umanità e forza organizzativa.
Lunedì si prosegue per Barcellona Pozzo di Gotto, dove dice Dell’Acqua per fortuna adesso “c’è un bravo direttore che molto ha migliorato le cose”. Ma l’iniziativa solo a pensarci è straordinaria.
Marco Cavallo ovviamente non é un uomo e non è un cavallo vero, ma è il “mythos”, l’opera teatrale alta tre metri e di colore azzurro creata nel 1972 dal drammaturgo e scenografo Giuliano Scabia per affiancare a Trieste la lotta per la liberazione dai manicomi intrapresa dal pioniere Franco Basaglia. Così il cavallo, cui è stato dato il nome di un uomo, ha simbolicamente infranto le mura dell’ospedale psichiatrico San Giovanni e portato nella città incredula malati, infermieri, medici, volontari. E poi ha proseguito per l’Europa dove ancora non hanno idea di matti liberati. Quarant’anni dopo ha iniziato una nuova spedizione lungo gli OPG e le sedi nazionali della politica, partendo simbolicamente per la Sicilia da Quarto (Genova). <Come Garibaldi – dice Dell’Acqua – per una spedizione senza massacri, cercando nell’isola l’aiuto della Regione Siciliana>.
Al Madia, lo storico edificio tardo-liberty inaugurato nel 1925 da Alfredo Rocco (proprio lui l’autore del famigerato codice), Marco Cavallo troverà poco più di duecento detenuti, nulla rispetto alla folla dolorosamente dantesca degli anni passati, e soprattutto non troverà più i boss mafiosi, i capi di camorra e ‘ndrangheta che a Barcellona trovarono più che un carcere o un ospedale, un albergo di lusso grazie alla compiacenza di medici, avvocati, giudici, infermieri e agenti di custodia. D’altronde chi poteva permettersi serate a base di aragosta, caviale e champagne e frequenti visite di familiari, nonché summit per stringere legami con le cosche locali e diffondere ordini di morte all’esterno, poteva facilmente comprare complicità. Almeno fino alla legge Gozzini (1986, che riformava l’ordinamento penitenziario, rendendolo più vicino al dettato costituzionale ma anche indirettamente aprendo maglie alle strategie criminali) tutti gli OPG italiani sono stati luoghi di villeggiatura e di rifugio per i boss, dov’era facile raccattare un ricovero fingendosi matti.
Ma quali sono stati i casi più clamorosi? Sicuramente quello di Agostino Badalamenti, garzone di macellaio trovato con la 357 magnum fumante dopo un delitto a Palermo. “Voglio la mamma” urlava il ragazzo davanti alla polizia . Dunque non era pazzo. A Barcellona, e all’Ucciardone in seguito quando il giudice scoprì la finzione, Badalamenti non parlò mai. Un vero uomo d’onore: quando uscì per decorrenza dei termini, schivando l’ergastolo, nel 1984 fu promosso capo della Famiglia di Porta nuova.
Famosissimo il caso di Leonardo Vitale, il vero primo pentito di mafia. Killer fin da bambino, addestrato dallo zio che lo mise alla prova facendogli uccidere un cavallo, Vitale, preda di un trauma sessuale avendo assistito da bambino ad un amplesso della madre con un uomo che non era suo padre, scoprì la fede e decise di parlare. Parlò molto, ma nessuno gli credette, soprattutto il giudice. Pazzo. Perciò spedito a Barcellona per dieci anni. I suoi accusati furono assolti, ma quando Vitale uscì, trovò quel che si aspettava: i suoi carnefici.
Un “gran cornuto” che spadroneggiava al Madia fu “Asparino” Mutolo, narcotrafficante e maestro di “dama” di Totò u curtu, ma pentito dopo la strage di Capaci, confessò a Bruno Contrada e a Domenico Signorino (il giudice morto poi suicida) chi aveva organizzato la strage Borsellino e che Salvo Lima era stato ucciso per non aver protetto i boss dalla sentenza del Maxiprocesso. L’appellativo glielo affibbiò Totò Riina dopo il tradimento. Che a Barcellona si stesse da pascià lo disse lui stesso a Luciano Violante: <Tutti là volevamo andare. Si stava ancora meglio di Palermo. Ci andavamo proprio per questo>. Per vendicarsi Riina disse poi della mamma di Mutolo, pazza fin da quando il ragazzo aveva dodici anni. Non aveva potuto guarirla nemmeno “La madunnuzza di Siracusa”.
Da Barcellona sono passati Masino Buscetta, Frank “tre dita” Coppola, Greco, i Bontate, Giuseppe Di Maggio, Giuseppe Pulvirenti il mammasantissima, Pippo Calderone Nino Santapaola (fratello di Nitto) e tanti altri fatti passare grazie alle perizie psichiatriche fatte in fotocopia. Fra tutti però si distingue il catanese Guglielmo Ponari che trasformava giocattoli in armi vere ispirandosi alla penna-pistola di James Bond. Le confezionava in “manicomio”.
Ma come ad Aversa, l’OPG dei babbi, dei buddaci (gli sciocchi, come venivano chiamati i messinesi) è stato un hotel anche per i capi camorristi. Massimo fra questi Giuseppe Ammaturo condannato per traffico internazionale di stupefacenti ma ricoverato perché “completamente pazzo”. Uscito con un permesso di sette giorni, chi lo ha più visto?
(da Repubblica-Palermo)