Ritorno a Basaglia. Per una psichiatria di ogni giorno.
Di Amedeo Gagliardi
La domanda che Paolo Francesco Peloso pone a tutti noi attraverso il suo libro è semplice: ha senso un ritorno a Basaglia? Lui, psichiatra, dal 1991 impegnato nei Servizi di Salute Mentale genovesi, spiega che sì, sarebbe molto opportuno, soprattutto per continuare a deistituzionalizzare la psichiatria di ogni giorno, come specifica nel sottotitolo.
In molti saranno pronti ad obiettare e sostenere il contrario, visto il clima sociale saturo di paure e indifferenza. Per molti, poco inclini ad approfondire il tema perchè lo considerano distante, la chiusura dei manicomi rappresenta ancora oggi un’assenza, che migliorerebbe la sicurezza delle vite di coloro che pensano di essere sani.
Contrario a questi motivi e con l’intento di migliorare la vita dei pazienti che incontra tutti i giorni, Paolo invece dedica 500 pagine, per spiegare e raccontare ai colleghi, agli operatori e a tutti gli interessati, per quali motivi sarebbe opportuno ritornare a Basaglia, alla sua visione, al suo metodo e alla sua umanità.
Il libro si sviluppa attorno alla vicenda storica e umana di Franco Basaglia, ed a quella che è stata la sua rivoluzione. Paolo l’affronta con rigore, contestualizzandola nella prospettiva storica della psichiatria. Aspetto rilevante per comprendere come conquiste e rivoluzioni non sono mai definitive, ma necessitano di nuove energie per continuare a stare al passo con le intemperie che soprattutto i tempi dell’individualismo propongono.
Ma da dove e in che modo parte la grandezza di Franco Basaglia e del suo pensiero? Da una cosa molto semplice: dal sapere leggere in modo coraggioso l’esperienza che vive sulla sua pelle.
Entrato come Direttore nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia alla fine del 1961, in brevissimo tempo constata come la cura di quel ‘dispositivo’, non alleviava le sofferenze delle persone ma perpetuava solo grandi ingiustizie. Per questo vive con contraddizione il suo ruolo, non riuscendo a fare il medico in un contesto così oppressivo e violento.
È da questa non banale consapevolezza che nasce la sua celebre espressione di dissenso: “e mi non firmo”. È da questa presa di coscienza che egli avvia un’esperienza straordinaria, riconoscendo nel malato il cittadino e di conseguenza cercando di proteggere il malato dalla sua malattia mentale, liberando simultaneamente il cittadino dalla gabbia istituzionale.
Una riflessione che matura in modo graduale con l’esperienza di Direttore dell’Ospedale Psichiatrico. Dopo un primo momento di spaesamento e rifiuto, questa lo spinge a guardare a quella realtà con un atteggiamento volitivo, appassionato, non meramente “realistico”, provando a trasformarla, consapevole di dovere, per questo, attraversare una realtà complessa e piena di contraddizioni.
Per questi motivi dichiara a Sergio Zavoli di preferire il malato alla malattia. Per questo cerca di costruire un luogo migliorandolo fisicamente, restituendo soggettività alle persone attraverso la conoscenza delle loro storie e un ascolto interessato. Per fare questo intuisce che si deve cambiare organizzazione, adottando un metodo nuovo, meno gerarchico, basato sul lavoro di un gruppo aperto a molteplici contributi, capace di integrare sguardi diversi, per tentare di comprendere la complessità emergente. Questo in pochi anni lo porterà ad una presa di posizione unica e radicale: il manicomio deve essere superato, non può essere riformato, va chiuso.
Una chiusura dello spazio fisico ma anche una profonda trasformazione di quel dispositivo teorico-burocratico e amministrativo che rinchiudeva la follia e i ‘matti’ in manicomio. La rivoluzione basagliana quindi non riguarda solo la chiusura dei manicomi, ma la simultanea costruzione di una diversa visione della follia, e la conseguente costruzione di un’istituzione nuova e tutta da inventare. Una visione capace di riconoscere che follia e ragione coesistono insieme nella vita di ognuno. Una visione che di conseguenza posiziona la cura dove le persone abitano, nel territorio, nella città, nella società. È in quel contesto che dovranno essere costruiti i “ponti”, necessari a convivere nella differenza, moltiplicando le opportunità di relazione, migliorando la salute mentale della comunità.
Insomma sono tre i livelli di questo capovolgimento di paradigma avviato oltre sessant’anni fa da Franco Basaglia. Il primo riguarda la relazione con il paziente, che si sviluppa a partire dal sapere di chi ascolta ma anche dalla sua capacità di sviluppare conoscenza attraverso un sentire autentico ed umano. Il secondo, un’organizzazione di servizi presenti e capaci di prendersi cura anche delle fatiche di coloro che operano. Il terzo, una società capace di coinvolgersi e di essere attenta ai più fragili, anche per imparare e per capire quanto valga la pena insistere con una competizione che spesso opprime tutti, non solo questi ultimi.
Questi tre livelli sono strettamente correlati, e ognuno per funzionare necessita di diventare interdipendente attraverso politiche capaci di un respiro largo e di un pensiero lungo. Il pensiero di Franco Basaglia indica che questi tre livelli devono essere interconnessi in una visione sistemica, pena la perdita di efficacia anche delle migliori prestazioni che si possano mettere in campo.
Di questa separatezza, di questa frammentazione e di questa poca integrazione e spreco di energie ogni operatore potrebbe raccontarne a lungo. Ma per capire meglio riporto un esempio concreto.
Prendo spunto da “California. La fine di un sogno”, il nuovo libro di Francesco Costa. Nel secondo capitolo l’autore osserva come in California ci sia una grande concentrazione di persone senzatetto, e non perchè lì faccia più caldo. Secondo le stime più basse, circa 160.000 persone. La California comprende il 12% della popolazione degli Stati Uniti, un quarto dei senzatetto degli Stati Uniti sono in California. A San Francisco e a Los Angeles è quasi impossibile non vederne: persone che via via nessuno considera più essere umani come gli altri. La situazione è così diffusa e tollerata che il Long Beach City College, un’università pubblica della contea di Los Angeles, ha deciso di dedicare un parcheggio ai suoi studenti senzatetto, per permettere loro di dormire in un posto sicuro, avere accesso a servizi igienici, energia elettrica e wifi. Tante di queste persone hanno un lavoro, anche a tempo pieno. Se è vero che molte persone finiscono per strada per ragioni economiche, nessuno da questa esperienza esce integro e “normale”. Il senso di fallimento diventa insopportabile, e gradualmente si smette di pensare a se stessi come ad un essere umano. Il desiderio di sopravvivere, o di morire, rimane l’unica forza disponibile. Tutto questo accade in California che è uno degli Stati più ricchi degli Stati Uniti. La spesa in servizi sociali e misure di welfare è più alta che in ogni altro Stato americano. Los Angeles e San Francisco destinano al problema dei senza tetto oltre un miliardo di dollari, e nessuno negli Stati Uniti spende quanto la California per i servizi di salute mentale. Eppure, dal 2010 al 2021 il numero dei senzatetto è cresciuto del 31 per cento.
Non mi dilungo oltre, ma credo che in estrema sintesi questo esempio faccia comprendere come fenomeni presenti anche nelle nostre città, possano essere contrastati solo se informano anche la società, provando a cambiarne la cultura e le politiche; altrimenti sono destinati a crescere, nonostante i migliori sforzi e interventi messi in campo.
Con Paolo Peloso condivido la necessità di un ritorno a Basaglia. Un ritorno alla lettura dei suoi scritti, inclusa la lettura del bel libro di Paolo, ad una visione alta del lavoro di cura, e ad una pratica che sappia tenere insieme pensiero e azione. Infine aggiungo altre domande alla sua: quanto oggi siamo lontani da questa prospettiva? Quanto dal cambiamento? Possiamo recuperare? Come?
A chi auspica questo ritorno, va la responsabilità di proporle, ricordando quello che scriveva Basaglia: “l’impossibile diventa possibile”.
ottobre 22 – Amedeo Gagliardi