La storia di una lunga, anche troppo lenta, transizione, quasi una traversata nel deserto delle istituzioni totali che giunge al termine, illumina di senso anche un altro profilo: è orami pacifico che, allo spirare del mese di marzo, tutti gli interrogativi prospettati e risolti, anche pioneristicamente, in questi mesi di sofferta sperimentazione sociale, si faranno di colpo concreti, attuali, talvolta drammatici
Note a margine al Convegno di ANM tenutosi a Bologna, il 20 marzo 2015: “Oltre gli Opg, prospettive e sfide di un incerto futuro prossimo”.
L’ordinamento giuridico italiano, con l’effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, affronta un cruciale rito di passaggio. Se ne è parlato a dieci giorni dalla scadenza del termine per la definitiva eclissi degli ospedali psichiatrici giudiziari, ad un convegno che ha visto riuniti studiosi della Costituzione e del diritto penale, magistrati, direttori sanitari degli stessi Opg, esponenti dell’avvocatura e, infine, il Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nel cuore di questa primavera del 2015, aleggia la sensazione, se non quasi la certezza, che non si darà luogo a ulteriori proroghe per la chiusura, la dismissione o il superamento dell’ultima, forse la più crudele, istituzione manicomiale che abita il nostro sistema giuridico. Tuttavia, già l’incertezza semantica (dismissione, superamento, soppressione) rimane l’indizio delle notevoli incognite che hanno costellato un accidentato cammino, tradendo la presenza nella cultura giuridica e sociologica italiana, di incertezze cognitive, esitazioni scientifiche e dubbi striscianti.
Sono le stesse ambivalenze che inducono a reazioni diametralmente opposte, riconducibili ad un primo grande dualismo. Vi è l’opinione di chi non ritiene maturi i tempi, non rinviene l’adeguatezza delle alternative all’ormai prossimo divieto assoluto di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario degli infermi di mente, socialmente pericolosi. Tuttavia, è diffusa anche l’opinione antitetica, quella di coloro che, ben consapevoli di chiaroscuri in cui versa il sistema delle misure di sicurezza psichiatriche in questo tornante storico, considerano impraticabili altri differimenti e del tutto ineludibile il divieto di ogni ulteriore accesso, a qualsiasi titolo, ed irrinunciabile una seria ed effettiva politica di dimissione degli attuali ricoverati.
Gli argomenti in favore della prima tesi richiamano la confusione applicativa delle norme del codice penale non intaccate dalle stratificazioni legislative degli ultimi tre anni; lamentano l’impreparazione del sistema di tutela della salute mentale sul territorio a sostenere l’impatto delle alternative di gestione dei nuovi infermi di mente pericolosi socialmente che commettono reati. Sullo sfondo cominciano già a prendere forma ed agitarsi gli spettri di minaccia della sicurezza collettiva, si critica la presunta deriva ideologica di nuovi, improvvisati afflati libertari, si invoca l’impossibilità di tradurre i numeri degli attuali ricoverati negli Ospedali psichiatrici giudiziari, in un equiparabile contingente di nuovi inquilini delle Rems. Di queste ultime, infine, si evidenzia la lentezza dell’entrata a regime quale ragione ostativa a porre fine agli ospedali psichiatrici giudiziari, in modo assoluto e definitivo.
Il circolo argomentativo si chiude con le accuse rivolte all’improntitudine del legislatore del 2014, o meglio a presunti difetti di formulazione degli emendamenti approvati nel corso della conversione del decreto legge che aveva disposto l’ultima proroga del termine di dismissione degli Ospedali psichiatrici giudiziari, procrastinandone l’estinzione al 1 Aprile 2015.
Per contro, la tesi favorevole a procedere senza indugio alla dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari ha ormai raccolto crescenti consensi e può contare su strumenti ed esperienze che, soltanto un anno fa, apparivano impensabili. Una parte di limiti garantisti al dispiegamento del sistema marcatamente repressivo fondato sull’impianto positivistico del Codice Rocco è già in vigore e comincia a dispiegare effetti non indifferenti. Lo studio empirico dei flussi di accesso e dimissione dai sei Ospedali psichiatrici giudiziari presenti sul territorio italiano suggerisce in primo luogo che, quasi ovunque, le porte di uscita sono già semichiuse, anche in forza del limite di durata massima della misura di sicurezza detentiva introdotto proprio dal legislatore della primavera scorsa.
Soprattutto, inizia a dare i suoi frutti l’opera di contrasto alla proliferazione delle Rems e della loro capienza potenziale, così da precludere l’effetto sostituzione tra (diverse) istituzioni del contenimento sociale. Cominciano, infine, ad essere tangibili i primi frutti di una capillare e ostinata opera di convincimento culturale, peraltro dall’insperata diffusività. Si fa strada il convincimento che l’estinzione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario non implica di fronteggiare la condizione del reo infermo di mente con altri ricoveri coattivi, effettuati nelle Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza.
La storia di una lunga, anche troppo lenta, transizione, quasi una traversata nel deserto delle istituzioni totali che giunge al termine, illumina di senso anche un altro profilo: è orami pacifico che, allo spirare del mese di marzo, tutti gli interrogativi prospettati e risolti, anche pioneristicamente, in questi mesi di sofferta sperimentazione sociale, si faranno di colpo concreti, attuali, talvolta tanto drammatici da determinare repentine opzioni di politica giudiziaria. Occorrerà adottare – e mutuo la brillante formula impiegata da un grande giurista nordamericano – “scelte costituzionali”([1]), cui ormai non è chiamato più solo un unico decisore politico, ma l’intero ordine giudiziario e la complessa e disomogenea rete dei servizi di salute mentale sul territorio.
Nella sua dirompente banalità, il quid novi cui si guarda, anche se talvolta con atteggiamenti variabili e differenze di visione, è che l’ospedale psichiatrico giudiziario sta già perdendo il suo ruolo fondante in quell’ “ordine psichiatrico”([2]) di cui parlava Robert Castel, in tempi ormai lontani. L’ultima istituzione manicomiale del nostro tempo non è più chiusa ermeticamente. La sua tenuta stagna segregante da tempo non è più perfetta e continua ad affievolirsi.
A Bologna si è parlato di questo per una lunga e proficua e giornata. Eppure, la felice intuizione – che si deve in prevalenza al Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, Francesco Maisto – di leggere lo zeitgeist di queste settimane da diverse prospettive, lascia in eredità un certo conforto e un ottimismo della ragione che investe più fronti.
Il contributo di tutti gli interventi e persino – fatto inedito -, del Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha mostrato i quattro confini che circondano una stagione che può dirsi, finalmente, nuova: 1) si scorge all’orizzonte un contesto condiviso di sostegno alla legalità costituzionale in materia di politica della pena e della salute; 2) si intravede un equilibrio tra i plurimi agenti coinvolti nella tutela della salute mentale al suo crocevia con la vita giudiziaria del Paese; 3) si rilancia l’attribuzione al reo non imputabile del definitivo statuto di malato bisognoso di cure; 4) si delinea una variegata e articolata risposta istituzionale che non risponde più alla logica generale ed esclusiva del “grande internamento”.
Su ciascuno di questi fronti è stata offerta una proposta comune alla soluzione dei persistenti dualismi che percorrono la materia delle misure si sicurezza psichiatriche.
Per prima, è stata posta in nuova luce la consueta alternativa culturale che presiede a una parte non minima dell’effettivo rapporto tra individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, oggi. Si dà precedenza all’antico quesito che inerisce al dove mettere i non imputabili, in quale luogo studiarli e controllarli, oppure ci si chiede quale risposta offrire alle persone che soffrono di disturbi mentali variamente correlati alla consumazione di un reato.
A ben vedere, il mancato scioglimento di questa opzione di metodo permette all’ombra dell’ospedale psichiatrico giudiziario di proiettarsi in modo persistente sulla sorte degli infermi di mente. La scienza psichiatrica, il costituzionalismo italiano del secondo Novecento, il diritto penale orientato ai principi della Carta fondamentale, raccomandano da tempo di porsi prioritariamente il secondo quesito, ma la presenza nel sistema delle case di cura e custodia e, soprattutto, dei vecchi manicomi giudiziari lascia riaffiorare tentazioni deresponsabilizzanti, piccole zone d’ombra farisaiche, e notevoli inconvenienti elevati ad implicite cause ostative.
Valorizzare la Costituzione – è stato detto a Bologna – significa rendere effettivo il principio personalista dell’articolo 2 della Carta fondamentale. Un valore compositivo estremamente fertile e concreto giacchè invita a prendere le mosse dalla condizione individuale di ciascun ricoverato, rifuggendo da soluzioni astratte e (in)valide per la generalità o per intere categorie di soggetti accomunati (assai impropriamente) sulla scorta della sola nosografia psichiatrica. Sotto questo decisivo profilo, l’interpretazione costituzionalmente orientata si salda con gli inviti a “restituire la soggettività”([3]) a ciascun abitante degli ospedali psichiatrici giudiziari e, soprattutto, con l’imperativo basagliano di interessarsi al malato e non alla malattia. S’intende in questa luce la rilevanza dei progetti terapeutici individuali: non a caso, quest’ultimo aggettivo rappresenta la vera chiave di volta per il completamento del piano di dimissione degli attuali ricoverati.
In definitiva, il principio che induce a tener conto della qualità e della condizione dell’infermo reo, per commisurarvi le modalità di concreta esecuzione della misura più adatta alla sua prospettiva riabilitativa, finalmente assume – come ricordava un grande costituzionalista del secolo scorso – la forza e il significato di una massima che sarebbe bene che tutti gli attori rispettassero “in omaggio della consequenzialità logica e sistematica e allo spirito unitario della Costituzione”([4]).
Dalla maggior parte delle voci ascoltate a Bologna, è emersa la consapevolezza che dal 1 Aprile 2015, all’ospedale psichiatrico giudiziario, investito dall’opera di deistituzionalizzazione, non potrà più demandarsi neanche il ricovero provvisorio di cui all’articolo 206 del codice penale. Infatti, proprio i ricoveri provvisori costituiscono la sacca di resistenza all’estinzione di questa istituzione totale che viene da un altro tempo. Lo hanno confermato tutti i direttori sanitari degli ospedali psichiatrici giudiziari, pur nella differenza d’accenti di commento sul tema. I dati dimostrano, oggi, che proprio i ricoveri provvisori hanno alimentato i numeri della popolazione degli internati negli ultimi mesi del 2014 e nel primo trimestre di quest’anno.
E sulle ragioni di questo fenomeno ci si è interrogati a lungo, seguendo il filo di esperienze diverse e sensibilità formatesi in contesti anche lontani. L’alternativa possibile è stata scolpita in modo definitivo. Si può far leva sul circuito carcerario di cui si intravede qualche embrione di rinnovata umanità nell’esecuzione della pena, assestando un ulteriore, ancorchè implicito, colpo al sistema del doppio binario. Lo chiedono a gran voce, e non certo da oggi, autorevoli studiosi del diritto penale.
L’opzione di investire esclusivamente i servizi psichiatrici territoriali di una nuova quota di domanda di assistenza, ha consentito di far emergere termini e caratteristiche di un temuto effetto di rigetto. Si è così contribuito a svelare le ragioni che, negli ultimi mesi, hanno alimentato striscianti equivoci e malintesi alla base di una non perfetta collaborazione tra gli attori istituzionali e un fragile dialogo tra scienze che parlano, non di rado, linguaggi differenti.
Al giurista che ha assistito al proficuo scambio a più voci nella giornata di Bologna, riesce forse più chiaro che ciascuna di queste due linee evolutive costituisce una scommessa. La pressione sull’universo carcerario, pur allentatasi, richiama il rischio di sgretolamento delle speranze di effettiva tutela della salute mentale, a fronte di condizioni emergenziali connesse con il sovraffollamento. D’altro canto, i servizi territoriali afflitti dall’onda di regressione del sistema di Welfare induce a interrogarsi sulla sostenibilità sociale di non procrastinabili scelte improntate al favor libertatis e alla tutela della salute mentale. Il dilemma si potrebbe leggere in filigrana e risolversi in un‘alternativa tra due temute resistenze culturali e operative che si rischia di dover sperimentare. D’altra parte – lo preconizzava un compianto maestro del diritto penale italiano, Franco Bricola – se la litania dell’abbandono, sperimentata nel lungo decennio che seguì la riforma psichiatrica, investisse anche la condizione dei dimessi dagli Opg, si potrebbero manifestare effetti di riflusso e nostalgiche rincorse a riproporre schemi contenitivi e di controllo sociale della marginalità([5]).
In tal caso, il parallelismo con la stagione che seguì il maggio del 1978, in cui fu approvata la l. n. 180, assumerebbe contorni assai più definiti, ma forse anche dolorosi. E allora a questo probabile ricorso storico, occorre prepararsi facendo tesoro di quell’esperienza di attuazione e diffusione delle “legge Basaglia” nel mondo dell’assistenza psichiatrica, nell’opera di ridefinizione dei tormentati e insidiosi rapporti tra ordine pubblico e sofferenza mentale. A Bologna si è definitivamente ribadito che le tentazioni revisioniste vanno prevenute, a maggior ragione quando si attraversa una temperie di cambiamento e si sperimentano resistenze dovute anche ad una riallocazione delle competenze e delle responsabilità, che poi è la lezione ereditata dalla de istituzionalizzazione compiuta nel lungo ventennio che seguì ad un’altra primavera, quella del 1978.
Ebbene, se il dualismo cruciale rimane quello tra il sostegno a una coraggiosa politica delle libertà costituzionali e nuove, striscianti opzioni securitarie, non vi è dubbio che la l. n. 81/2014 ha già innestato, sul corpo della precedente l. 9/2012, un afflato garantista e un accento fortemente orientato nel senso della tutela del diritto alla salute dei singoli ricoverati, rispetto al quesito circa la sede e le istituzioni del contenimento della pericolosità sociale. E’ stato detto che il perno dello statuto giuridico del reo non imputabile si è definitivamente spostato verso l’esigenza inderogabile di garantirgli cura, terapia e riabilitazione. E ai magistrati intervenuti a Bologna, e per primo allo stesso Francesco Maisto, si deve l’esposizione nitida e illuminante delle difficoltà – anche di segno culturale oltre che pratico – incontrate nell’orientare la decisione giudiziaria verso la stella polare della tutela del diritto alla salute del singolo ricoverato.
Eppure si è convenuto all’unisono sull’opportunità di rammentare la coerenza tra l’inserimento di un limite di durata massima della misura di sicurezza detentiva, la facoltà prevista dallo stesso legislatore di un’effettiva alternativa all’impiego delle risorse per l’istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in favore dei programmi di rilancio dei piani terapeutici individuali da parte dei Dipartimenti di Salute mentale.
E ancora, la logica sistemica di chiudere o rendere più strette e accidentate tutte le vie di accesso al circuito delle misure securitarie psichiatriche, testimonia l’intento di incidere sul fenomeno dei ricoveri residuali per mancanza di alternative, di scongiurare lungodegenze in Opg, di fermare sul nascere l’innesto di circuiti detentivi di cui era avvertita la difficoltà di spezzare la continuità, una volta che li si è alimentati. Ormai ci si interroga esplicitamente, talvolta anche facendo di necessità virtù, su cosa vieti il trattamento del reo infermo di mente senza istituzione di contenimento. Forse, varrebbe la pena di rispondere con Elias Canetti, che “l’elemento pericoloso dei divieti è che ci si fida di essi e non si riflette su quando sarebbero da cambiare”([6]).
Riepilogare questi elementi ha evidenziato come la materia che ci occupa sia stata scandagliata in profondità nella consapevolezza di nuotare tutti in uno stagno che, pur smosso dalle novità normative, subito si costella di inedite e stridenti contraddizioni. Tutto ciò disillude sulla possibilità che alcuni soggetti istituzionali siano sgravati dal prendere partito su nuove forme di assunzione di responsabilità.
Il profilo delle responsabilità è, anzi, quello decisivo nell’attuale temperie. Il tema incombe, infatti, sulla giurisdizione che ora affronta nuove alternative di trattamento senza più l’ospedale psichiatrico giudiziario sullo sfondo, “a guardare le spalle”. Ma il carico delle novità aleggia anche sulla psichiatria forense e, più in generale, sulle tecniche di redazione della perizia e sui termini e i modi per svolgere la consulenza tecnica d’ufficio.
E’stato adombrato che sulla magistratura (quella della cognizione e di sorveglianza) non si deve trascurare l’impatto dell’entrata in vigore della nuova disciplina sulla responsabilità civile che, indubbiamente, rischia di favorire il proliferare di giurisprudenze difensive o, comunque, di indirizzi svilenti la portata innovativa della riforma del 2014. Il che coglie il punto tanto più se i divieti di nuovi internamenti e ricoveri coattivi divengono, oltre che stringenti in punto di diritto, efficaci in punto di fatto, anche per via dell’assenza di posti letto effettivamente disponibili nelle Rems ancora in corso di gestazione.
Si è prospettata poi l’ulteriore alternativa in ambito di indirizzi di amministrazione regionale. Vi sono Regioni che hanno optato per la rinuncia alle Rems, e altre che, all’opposto, hanno sviluppato piani di implementazione tali da mutare il panorama di difesa sociale, trasformando territori prima non contraddistinti dalla inquietante presenza dell’Ospedale psichiatrico giudiziario e che ora potranno contare su Residenze di capienza significativa.
Questo orizzonte variegato dell’applicazione della legislazione del biennio 2012 – 2014 induce a qualche riflessione circa le responsabilità delle amministrazioni pubbliche e i rischi sottesi a scelte di politica sanitaria e criminale che non possono considerarsi neutre, né ricondotte a semplificate esigenze efficientiste o a scorciatoie venate di ideologia.
Vi sono, infatti, Regioni che hanno scommesso sui Dipartimenti di salute mentale come rete di integrazione che consenta di evitare il ricorso a un’istituzione (a qualunque istituzione) di contenimento del reo non imputabile. Soluzioni virtuose di questo tipo, si intende, presentano rischi di regressione istituzionale di varia natura. Per primo, l’innesco di politiche giudiziarie di esportazione ad altri territori di nuovi ricoverati; e poi la non trascurabile eventualità di innescare nuovi cortocircuiti tra le decisioni della magistratura e la capacità di assorbimento da parte dei Servizi territoriali; né può escludersi la crisi di rigetto collettiva e diffusa, specie se alimentata dall’incapacità del carcere di offrire un’alternativa reale.
Su questo complesso scenario, gravato da incognite di cui pure non dovremmo essere del tutto digiuni se solo ripensassimo una volta ancora al decennio successivo al 1978, si agita forse la più grande scommessa che coinvolge anche la dottrina. Perché, certo, occorre rivalutare a fondo l’intuizione di recente ribadita da Tullio Padovani[7]: la flessione dell’offerta di reclusione e internamento incide sulla stessa domanda, cioè sulla politica della pena che si compone dei diffusi e minuti tasselli della decisione giudiziaria. Un tema, questo, che vale in particolare per le misure di sicurezza detentive, per le quali è nota, ancora una volta, la tesi che il numero dei soggetti giudicati non imputabili decresce al flettere (o persino alla scomparsa) dell’offerta di internamento. Sappiamo tutti che questo è il volto più oscuro e sinistro del concetto di pericolosità sociale: la sua ambivalente natura diagnostica/prognostica e, come sottolinea certa parte della scienza psichiatrica, un concetto non puramente cognitivo scientifico, ma sin troppo innervato di componenti di valutazione morale e di aleatoria previsione del comportamento deviante.
Certo non minori incognite, ancorchè diverse, gravano sulle Regioni che, scaduta l’ultima proroga, avranno imboccato con variabile nitore e rapidità di attuazione, la via dell’istituzione delle Rems. E’ in tali contesti che più si avverte il rischio di uno sbilanciamento verso nuove derive neo – custodialistiche. Specie in queste zone del territorio italiano, il futuro dei ricoverati nelle Rems ruoterà sui limiti legislativi imposti per la loro genesi. Il tetto massimo dei posti letto che dovrà scongiurare, ancora una volta, la tragica riedizione dei grandi internamenti; la prevalente gestione sanitaria del trattamento; il cruciale innesto del limite massimo di durata della misura di cui all’articolo 222 c.p. Specie quest’ultimo rappresenta l’antidoto contro la cronicizzazione prima, e lo scudo impeditivo della residualità manicomiale e degli ergastoli bianchi, poi.
Ecco dunque che l’accento su queste leve offerte dal tessuto normativo, dovrebbe guidare nel pervenire allo scioglimento dei grandi binomi esemplificati e cioè nella direzione opportuna per affrontare quello che Andrea Pugiotto[8], proprio nell’introdurre i lavori di venerdi 20 marzo a Bologna, ha definito un “bivio costituzionale”.
E occorre ribadire che la Costituzione offre molto risposte, talvolta persino più di quelle che scorgiamo a prima vista, presi come siamo dall’urgenza del provvedere, dall’angoscia di responsabilità immense che circondano la decisione giudiziaria, dalle alternative di gestione della salute mentale. Al riguardo, occorre alimentare la pluralità delle alternative possibili. Ci si richiama così all’invito che fu di Leopoldo Elia[9] a far valere le c.d. “leggi facoltizzanti”, quelle che aprono ventagli di alternative possibili alla discrezionalità e all’apprezzamento del giudice.
Più si amplierà il novero delle alternative di cui potrà disporre il giudice della cognizione e poi quello della sorveglianza, più si schiuderà la via per il trattamento individualizzato, cioè quello che pone al centro della risposta dell’ordinamento alla non imputabilità, soluzioni a misura d’uomo, conformate al caso singolo, alla storia personale del reo. E appunto tornando a citare Basaglia, è questa una soluzione terapeutica e riabilitativa dedicata “certamente al malato e non alla malattia”.
Rifuggire da soluzioni omnicomprensive, dai trattamenti generalizzanti e chiusi in rigidi protocolli applicativi, significa sciogliere i dubbi di questa nostra sofferta materia secondo la traccia costituzionale. Infatti, si declina anche così il file rouge che, muovendo dal principio costituzionale personalista, tutela la centralità dell’Uomo “sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2 Cost.), si sviluppa nella tutela della “salute come diritto fondamentale dell’individuo” (art. 32 Cost.), e si declina nella protezione della dignità delle persone “comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art. 13 Cost.), nonché nel “rispetto della persona umana” quando si è sottoposti a trattamenti sanitari coercitivi (32, secondo comma, Cost.).
La pars construens della nuova legislazione risiede proprio nell’effettività dei progetti terapeutici individuali. Non si tratta solo dell’acquisita consapevolezza che solo per il loro tramite potrà aprirsi la strada alle dimissioni di tutti gli attuali ricoverati. Vi è anche l’accento sulla singolarità della questione di ognuno degli inquilini degli Opg, dell’unicità di ciascun percorso umano e quindi della necessità di un piano orientato alle esigenze del singolo, pur sempre un intarsio unico di vicende di vita ed esperienze di sofferenza.
In conclusione, le parole d’ordine cui guardare abitano il testo costituzionale, rifuggono le generalizzazioni, gli automatismi meccanici e predefiniti. Centralità della persona, tutela della salute attraverso progetti e trattamenti il più possibile individualizzati, disponibilità di risposte graduate e variabili nella gestione della minima quota di popolazione residua degli Opg che pone, forse, problemi di sicurezza, ma all’insegna della leale collaborazione tra livelli di amministrazione e magistratura, operatori della Sanità e uomini di diritto.
Tuttavia, per non smentire quanto è apparso finalmente con chiarezza a Bologna, occorre rammentare che queste scelte, il ricorso, da parte della magistratura a una giurisprudenza che sia anche creativa e tuttavia mai difensiva, l’impegno come operatori disposti alla presa in carico di individui che soffrono, devono costituire l’antidoto alla tentazione di farsi esegeti di diagnosi astratte e asfittiche.
Sarà, questa, la via più sicura per impedire la riedizione di un fenomeno che Giuseppe Capograssi[10] definiva, e con non celato fastidio, il “valore emozionale del concetto di crisi”([11]). In fondo, dal convegno di Bologna giunge un appello affinchè si prevenga quel sentire collettivo delegittimante che sarebbe nocivo per questa nostra stagione in cui quasi tocchiamo con mano, ormai, il superamento effettivo della più ambigua tra le istituzioni totali da riconsegnare al “mondo di ieri”([12]).
([1]) L. Tribe, Constitutional Choices, Harvard University Press, 1986.
([2]) R. Castel, L’ordine psichiatrico, Feltrinelli, 1980.
([3]) E’ appunto l’evocativo titolo del volume di lezioni di P.A. Rovatti, Restituire la soggettività, Edizioni Alpha/Beta Verlag, 2014.
([4]) C. ESPOSITO, Le pene fisse e i principi di eguaglianza, personalità e rieducatività delle pene, in Giur. Cost. 1963.
([5]) L’analisi si trova in F. Bricola, Politica criminale e scienza del diritto penale, Il Mulino, 1997.
([6]) E. Canetti, La provincia dell’Uomo, Adelphi, 1978.
[7] Ordinario di Diritto Penale presso la Scuola Superiore degli Studi Universitari Sant’Anna di Pisa.
[8] Ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Ferrara.
[9] (1925-2008) politico e giurista italiano, fu Presidente emerito della Corte costituzionale e professore di diritto costituzionale nelle Università di Urbino, Ferrara, Torino e Roma.
[10] Filosofo italiano (1889-1956) interessatosi particolarmente alla filosofia del diritto.
([11]) G. Capograssi, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA VV, La crisi del diritto, Cedam. 1953.