È interessante, ma soprattutto importante la discussione innescata dalla bella recensione di Paolo Peloso al libro di Ernesto Venturini sulla fine dell’esperienza goriziana di Franco Basaglia. Secondo me, al fondo delle scelte allora fatte dal gruppo che lavorava insieme a Basaglia sta la questione generale, di base, dei rapporti fra psichiatria, intesa come assistenza psichiatrica pubblica, e politica, due mondi che si frequentavano e si frequentano fittamente, intensamente. Allora ad amministrare i manicomi era un Ente Locale governato da una giunta che doveva rispondere del proprio operato a un Consiglio eletto con voto popolare, sulla base di liste di partito. E, nel secondo dopoguerra, i partiti politici c’erano ed erano fortemente radicati nella popolazione.
Poi va considerato che i manicomi erano anche una “fabbrica” che offriva opportunità di un lavoro e di un salario sicuro a infermiere ed infermieri, operai, amministrativi. Il personale infermieristico, in particolare, accedeva a tale occupazione dopo aver frequentato un corso semestrale, gestito dalla Provincia, che rilasciava il cosiddetto “patentino manicomiale”: vi si insegnava soprattutto come tenere la disciplina, la sorveglianza, la custodia dei matti. Bastava la quinta elementare, erano per gran parte – per quelli che ho conosciuto io – braccianti agricoli, manovali edili. Il personale infermieristico tutelava i propri diritti e la propria condizione, sia nei confronti della Direzione che della Provincia, con una forte organizzazione sindacale; erano attive cellule del PCI, Nuclei Aziendali Socialisti (NAS) del PSI, sezioni della Democrazia Cristiana. Questo significava che il personale infermieristico poteva avere accesso diretto all’interlocuzione sia con i dirigenti del partito di appartenenza che con gli amministratori della Provincia di cui erano elettori con le loro famiglie. Il personale femminile era di solito comandato da religiose, che avevano una “Madre Superiora” che poteva conferire direttamente col Direttore, nonché con il proprio Ordine e con il Vescovo.
Dal canto suo, il Direttore del manicomio era una autorità pubblica riconosciuta, ma era pur sempre un dipendente della Provincia e non doveva né poteva ignorare il consenso dell’autorità politico-amministrativa, sia locale che provinciale, senza dimenticare che il lavoro dell’assistenza psichiatrica pubblica era marcato da una legge speciale del Regno d’Italia transitata senza scosse, immutata, attraverso la lotta antifascista e il Regime repubblicano. La legge manicomiale del 1904 e il suo Regolamento del 1909 prescrivevano rapporti fittissimi, anche di informazione, fra Direttore, Questura, Carabinieri, Amministrazione della Giustizia. Tutto questo fino al 1968, anno della legge stralcio Mariotti, la 431, che fu ispirata e voluta dai movimenti di operatori, in specie l’AMOPI, il sindacato autonomo dei medici dei manicomi, che si rifacevano al modello organizzativo e alle culture professionali del “settore psichiatrico”.
Per dire che né Franco Basaglia né chi lavorava con lui poteva prescindere dagli assetti di un “potere medico” che era potenzialmente senza limiti per quello che riguardava le persone internate, ma con molti vincoli e controlli per quello che riguardava i rapporti non solo con le Istituzioni locali e statali, ma anche con il personale infermieristico il cui consenso era decisivo per attuare i cambiamenti che si volevano introdurre nella “vita quotidiana” del manicomio e delle sue finalità. E Franco Basaglia lo sapeva benissimo.
Per tali ragioni la storia dell’assistenza psichiatrica pubblica italiana ha riconosciuto il ruolo decisivo di quegli amministratori provinciali che accettarono, scelsero di lavorare con Basaglia e gli psichiatri innovatori: per tutti cito Mario Tommasini a Parma, Bruno Benigni ad Arezzo, Sante Baiardi a Torino, Michele Zanetti a Trieste, Fausto Boioli a Milano, Nando Agostinelli a Roma, il gruppo degli amministratori perugini. A dimostrazione, per converso, che in tutte le altre realtà italiane le cose erano più difficili, complicate, non per le resistenze dei soli medici che difendevano l’utilità della “scienza manicomiale”.
Basaglia, proprio per la consapevolezza della centralità della dimensione della “politica”, nonché della complessità e varietà dei contesti locali e della forza delle tradizioni e delle culture asilari, coltivò importanti frequentazioni con la politica anche nazionale, in quella che fu chiamata la “stagione delle riforme”. Fino ad accettare di lavorare a Roma in qualità di consulente del Comune, ospite di Raffaello Misiti e Giovanni Berlinguer, avendo contro l’ostilità non solo dei primari del S. Maria della Pietà, ma anche delle loro mogli, per non parlare dell’enorme rete delle Cliniche private laziali con tutto quello di interessi che ci stava attorno.
Fu per un tale intenso, lungo, profondo lavoro che i partiti politici, grandi e meno grandi, così come le organizzazioni sindacali, le associazioni professionali degli psichiatri e degli psicologi, gli intellettuali dovettero schierarsi, dire sì oppure no; così furono possibili non solo la 180 ma, subito dopo, il Servizio sanitario nazionale. E siamo ancora qui perché non è finita.
P.S: dopo il “miracolo” della chiusura, per legge, dei manicomi giudiziari, molti di noi sono impegnati per la riforma del Codice Penale per garantire il diritto al processo, alla pena e alla cura degli autori di reato con diagnosi psichiatrica. In questi giorni sta facendo scandalo la sentenza della Corte d’Assise di Brescia con la quale è andato assolto per vizio totale di mente un signore che aveva ucciso a coltellate la moglie. Il delitto è avvenuto in una casa di via Cesare Lombroso. Non credo però che sia per questo che nei molti commenti indignati si tace della norma del Codice sulla imputabilità che è stata legittimamente applicata. Per dire che abbiamo molta strada da fare per riuscire a far passare e discutere le nostre idee nei Tribunali, fra gli avvocati, gli studiosi del diritto, il mondo dell’informazione, la politica, il Parlamento.
Mantova, 12 dicembre 2020