Piemonte residenzialità: dov’è finita la legge 180?
Ancora sulle residenze in una regione dove questi luoghi abbondano
di Enrico Di Croce
L’ arte di tenere chiuse le persone. Residenzialità psichiatrica: libera scelta del luogo di custodia. La Regione Piemonte obbliga le strutture a chiamare i carabinieri se un paziente decide di andarsene
Che cosa dovranno verificare le associazioni di familiari e pazienti autorizzate dalla Regione a compiere visite “liberamente e senza necessità di avviso” nelle strutture residenziali psichiatriche piemontesi? Forse che i cancelli siano ben chiusi e non scalabili? Le serrature solide, le telecamere di sorveglianza funzionanti? Oppure che sia previsto un bel protocollo di intesa con le stazioni dei carabinieri di zona, o con i Cittadini dell’Ordine, per garantire il controllo perimetrale?
Verrebbe da pensarlo leggendo le incredibili clausole del contratto che comunità e appartamenti protetti si sono visti recapitare dall’Assessorato la scorsa settimana, in ottemperanza alla nuova Delibera regionale appena entrata in vigore (Dgr 84/2021). Tra gli obblighi delle strutture c’è infatti quello di allertare “senza ritardo” le “autorità di pubblica sicurezza” in caso di “allontanamento non concordato” degli utenti.
Pensando di avere le traveggole abbiamo riletto più volte la frase, ma è scritto proprio così, non c’è spazio per fraintendimenti. Non si parla di pazienti in crisi, il cui allontanamento susciti preoccupazioni cliniche; e tantomeno di pazienti agli arresti o con restrizioni giudiziarie. Si intende qualunque paziente. Qualunque cosiddetto ospite (definizione non più tanto attuale, a quanto sembra…) abbia l’ardire di abbandonare un programma riabilitativo residenziale contro il parere dei curanti. O anche solo di lasciarlo in modo provvisorio, conflittuale o meno, in una fase di costruzione dell’alleanza con l’équipe.
Ma davvero? La Giunta Cirio non aveva forse sbandierato ai quattro venti il principio della libera scelta di pazienti e famiglie? Il rispetto non negoziabile della soggettività e dignità della persona? Non si era guadagnata l’applauso reverente dei soggetti pensosi dei diritti dei pazienti, in primissima fila le associazioni cosiddette di tutela: Associazione Lotta contro le Malattia Mentali (associata Unasam) e Diapsi su tutte?
Temiamo che qualcosa non torni. Che il nuovo rinascimento psichiatrico annunciato dal presidente Cirio e dall’Assessore Icardi nasconda qualche contraddizione. Forse il neo-manicomialismo strisciante che avevamo denunciato nelle delibere di riordino della Giunta Chiamparino ha smesso di strisciare: è balzato in piedi e si sta mostrando a tutti, senza vergogna. Contrordine, amici, compagni, camerati: la libera scelta vale per l’ingresso, non per l’uscita!
Un’altra perla degna di assoluto rilievo è la definizione di scopo della assicurazione per la responsabilità civile, già prevista dalla legge e, in sé, necessaria. Ebbene, nel contratto si spiega che essa serve per “i danni causati da utenti ad altri ospiti agli operatori, a terzi e alle cose”. Altre fattispecie non vengono nemmeno menzionate. Evidentemente si dà per scontato che solo gli utenti possono fare danni e non si immagina nemmeno che possano subirne.
Il combinato disposto di questi due articoli, precisato in un contratto che definisce gli impegni reciproci, sembra veicolare un messaggio neanche troppo subliminale della Regione ai gestori delle strutture: cari gestori, vi paghiamo per tenervi i pazienti, badate bene di non farveli scappare; se dovesse capitare chiamate subito i carabinieri; ma ricordate che, se faranno danni, sarete voi a risponderne.
Questo, in parole povere, ci pare sostanzi il principio della “posizione di garanzia del sistema curante” che i leader culturali della odierna psichiatria piemontese si sono affrettati a chiamare in causa (finora fuori onda) per giustificare questo obbrobrio. Ma garanzia di che cosa e per chi? Ce lo chiediamo e lo chiediamo a tutti, ancora una volta. Possibile che “tenere dentro”, obbligare, presupporre la pericolosità e l’irresponsabilità, continui ad essere l’unica via per curare chi sta peggio? L’unica alternativa all’abbandono? Come se non bastasse il profluvio di misure di sicurezza, di “obblighi di cura” oscenamente previsti per tutelati e amministrati, in alternativa illusoria alla costruzione di relazioni e alleanze, il Piemonte arriva a prevedere una specie di libertà vigilata d’ufficio per chiunque venga inserito in un programma residenziale.
Con queste premesse, che senso ha il gran parlare che fa la Dgr 84, nella sua parte introduttiva, di diritti di cittadinanza, di “accordi/impegni di programma” sottoscritti da utenti e familiari, di co-progettazione, di budget di salute?
A tutt’oggi non si conosce una presa di posizione critica delle sopracitate Associazioni di tutela. Tanto meno hanno battuto ciglio, come al solito, gli psichiatri, gli operatori di base dei Dsm, i Direttori non organici all’Assessorato. Andrà bene così a tutti? Oppure la responsabilità di un’opposizione politica e legale ricadrà ancora una volta sui soli gestori, come è avvenuto in passato, nell’infinita querelle a colpi di carte bollate sulle Dgr 30 e 29 di cui i privati hanno sostenuto quasi tutto il peso, venendo pure tacciati di difendere puri interessi di parte?
O magari, visto che si sono più o meno sistemate le questioni di rette e compartecipazione alla spesa, faranno tutti spallucce? Chiamare o non chiamare i carabinieri….in fondo sono solo questioni formali -si sente già dire nei corridoi. E poi, non fanno già tutti così? Non è già obbligatorio per legge?
Ebbene no, non tutti fanno così. E non è obbligatorio per legge, se non in presenza di prescrizioni giudiziarie o in caso di allarme per le condizioni cliniche della persona. In assenza di tali situazioni è invece illegittimo, secondo noi: una violazione perlomeno delle norme sulla privacy. Perché, per il momento, la legge 180 è ancora in vigore. E l’unico obbligo di cura rimane quello previsto dalla legge 180 nella parte relativa ai tso. E i tso non si possono attuare, in nessuna forma, nelle strutture residenziali.
La questione non è formale perché è di enorme rilevanza dal punto di vista clinico. Per questo speriamo che i tanti operatori e i tanti utenti e familiari che ancora non si rassegnano alla dicotomia: abbandono o segregazione, vorranno forse far sentire la loro voce. Chi lavora nelle comunità e, più ancora, chi ci vive come utente, sa che fa tutta la differenza del mondo stare dentro un programma residenziale da cittadino, da persona con un potere contrattuale vero, oppure da semi-segregato, da prigioniero di fatto, da quasi-persona considerata d’ufficio pericolosa e irresponsabile. E fa tutta la differenza del mondo per gli operatori poter considerare salute e sicurezza degli utenti come la priorità indiscussa del proprio lavoro clinico, da costruire ogni giorno in una faticosa contrattazione; oppure ritrovarsi costretti a un ruolo di controllori, che rispondono in solido dei comportamenti disfunzionali dei pazienti che sono loro “affidati”. C’è differenza, e spesso incompatibilità, fra il ruolo di cura e quello di controllore-gestore-sorvegliante dei comportamenti.
E’ la lezione che dovrebbe averci consegnato, una volta per tutte, la lotta contro i manicomi di mezzo secolo fa, e che invece ritorna sempre attuale. La domanda fondamentale rimane la seguente: quanti di noi hanno ancora la forza, le capacità, la motivazione per recepirla e metterla in pratica?