[articolo uscito su Il Piccolo il 6 novembre 2020]
Prima osservazione: non è il momento di schivare l’emergenza salute spostando l’attenzione su rimpasti di governo e polemiche politiche dilatorie. Seconda osservazione: non è neppure il momento di limitarsi alle lamentazioni su quanto si poteva fare e non si è fatto. Nel primo caso la politica si ridurrebbe a un livello di povertà etica inaccettabile. Nel secondo mancheremmo l’obiettivo di gesti concreti.
Dovremmo perciò affrontare la situazione indicando possibili iniziative, qualunque posto ci troviamo a occupare nell’attuale corpo sociale. Il richiamo alla responsabilità che tutti sentiamo comporta che ciascuno di noi, da qualunque luogo prendiamo la parola, si impegni a proporre un contributo di ragionevolezza. Da parte mia, vorrei qui tornare a ragionare positivamente sulla questione del “territorio”.
A livello paese l’abbiamo persa di vista o messa in disparte, e ora ci stiamo accorgendo a nostre spese che, se avessimo una medicina territoriale organizzata e funzionale, saremmo tutti meno spiazzati dal virus e meno sperduti quando cominciamo a sentirci male. È lì che ciascuno rischia di smarrirsi perché al telefono non trova risposta, perché il medico di base c’è e non c’è e comunque non risulta così vicino, perché il ricorso al privato è costoso e non sempre mantiene ciò che promette, perché infine i media accentuano di continuo le difficoltà con immagini allarmanti.
Quando osservo che il territorio sembra ormai “scomparso”, constato che il buco tra il cittadino e l’istituzione sanitaria, anziché ridursi, si allarga quasi ovunque. Veniamo esortati a non precipitarci al pronto soccorso, e si capisce bene il motivo visto l’intasamento che si sta producendo. Ma stare a casa senza un’adeguata assistenza è una scelta fatalistica e angosciante.
Ecco, il territorio è quell’importantissimo corridoio sociale che dovrebbe esistere tra il singolo cittadino e l’ospedale e che dovremmo tutti impegnarci a riattivare il più presto possibile, chiedendo a gran voce che la “città” diventi o torni a essere una città che cura: rendendoci disponibili, certo, ma esigendo che il territorio sia uno spazio di vita socializzato, non un buco, tanto meno un muro che ci isola nei nostri angusti spazi privati.
Trieste ne sa qualcosa, anzi molto. Cominciamo allora a evitare il pericolo che la memoria sbiadisca in fretta. Ricordate? Tutto ebbe inizio con quel sussulto ormai antico di cinquant’anni, quando Franco Basaglia e la sua équipe smontarono la psichiatria tradizionale chiudendo il manicomio di San Giovanni, con il mondo intero che ci guardava sbigottito (e che poi avrebbe preso a modello questa “rivoluzione”). La psichiatria era solo il focolaio, l’intera medicina ne avrebbe preso l’esempio diffondendolo.
Ma va anche ricordato che veniva così messa in gioco l’intera società, non solo il comparto medico, e allora sarebbe anche colpevole dimenticare ciò che accadde dopo, e cioè il tentativo (di Franco Rotelli e degli altri) di costruire “servizi” che riempissero di concretezza (di “buone pratiche”) il territorio urbano, trasformandolo in un “sistema di relazioni” attraverso i “distretti” e le “microaree”. Ricordo solo il progetto “Fare salute” lanciato nel 2005 e rimando chi volesse saperne di più al volume La città che cura (2018, edizioni alpha beta), un’inchiesta tradotta in una serie di “storie” raccolte e commentate da Giovanna Gallio e Maria Grazia Cogliati Dezza.
Per fortuna non è tutta acqua passata, resta un fondo di esperienze ancora oggi decisive da ripensare e da riattivare, sempre che Trieste voglia conservare quella funzione di “pesce pilota” che ancora rappresenta e che, soprattutto adesso sarebbe vitale per riprendere a costruire un territorio sociale che si sta sfrangiando sotto i nostri occhi. Ho l’impressione che senza questa base verrebbe a mancarci il terreno sotto i piedi e rischieremmo a ogni passo di scivolare in quel buco che resta aperto tra noi e l’istituzione ospedaliera.
Dicono che oggi manca a livello politico un’adeguata progettualità. Non pochi rincarano la dose e arrivano a un lucido pessimismo, notando che si fanno tante cose, magari lodevolmente, ma con la testa rivolta solo all’immediato, senza alcuna prospettiva politica. Aggiungo che non sarebbe davvero il caso di lasciare alle retoriche antigovernative l’argomento della carenza di una medicina territoriale.
Bisognerebbe, comunque, intendersi bene sul fatto che non si tratta soltanto di una qualche saldatura tra territorio e presenza dei medici: sarebbe già importante, come attestano alcuni esempi europei (quello tedesco, innanzi tutto), ma per colmare davvero il buco non basta una moltiplicazione degli ambulatori. Il territorio, che ciascuno di noi esperisce in prima persona, diventa un territorio concretamente socializzato solo quando riesce a essere un effettivo habitat, un luogo di relazioni vissute nel quale, accanto alla presenza non istituzionale della medicina, possa verificarsi qualche risposta globale ai nostri bisogni, dai più elementari a quelli più complessi, dalla casa alla scuola e all’insieme dei modi della convivenza sociale.
Siamo lontani da un simile traguardo: possiamo cominciare dal medico che arriva nelle case, senza però dimenticare che è sempre un progetto complessivo che dà senso a ogni mossa.