Di Silva Bon
I ricordi sono frantumati e al tempo stesso lucidi.
Sono quarant’anni che sento, e so, consapevole, di sentire le voci. Le sentivo anche prima, a tratti, con intervalli lunghi di tempo trascorsi da un’esperienza all’altra.
Ma quella notte di gennaio del 1980 ho assunto su di me la responsabilità e la cognizione netta di sentire le voci. Con le orecchie. E nel cervello, nella mia mente, nella continuità del flusso di pensiero.
Sono interferenze, parole altre, parole e frasi che io non ho pensato e che mi stupiscono perché non mie; che entrano a pieno diritto nella mia vita, la commentano, la giudicano…
All’inizio, per molto tempo, almeno per una decina di anni, le voci erano graffianti, sempre derisorie, sempre cattive. Mi hanno fatto soffrire perché erano una vera e propria tortura.
So per l’appunto cosa significa subire delle torture di tipo psicologico, psichico, e so cosa vuol dire esserne in balia, impotenti, e non potersene liberare. Dunque, subire sempre. Non poter reagire. Dover accettare per forza ogni violenza verbale, inferta come la lama di un coltello che ferisce a sangue. Atrocemente, ma non a morte.
E pertanto è necessario continuare a vivere. E diventa fondamentale e salvifico cambiare, rimodulare sé stessi, il proprio percorso di vita.
Devo a quelle sofferenze la conoscenza della follia, la caduta nella follia, ma anche la forza di strapparmi da una situazione familiare insostenibile, che mi aveva violentato e mi avrebbe ancora violentato in modo assoluto, se non fossi stata espulsa, come una mela marcia, come una parte infetta.
Il rifiuto che mi ha colpito è stata la mia fortuna. Una chance inaspettata e improvvisa, una notte di luglio, torrida e opaca. Mi si è aperta una finestra, una via di uscita, una possibilità: il rifugio nella follia, dopo tanti e tanti anni di devastazione e di acute, acuminate sofferenze. E la conseguente condanna, che ha come pena susseguente il ripudio familiare.
Devo la vita, la vita futura, a quella notte di follia, in cui ho agito, sostenuta e spinta dalle voci, con un comportamento estremo, con reazioni abnormi e al tempo stesso corrette: là, nel salotto, nel cuore della mia bella e ricca casa, pazza e lucida insieme. Perché di quella notte ricordo tutto, perfettamente, con coerenza e con precisione, tutta la sequenza degli accadimenti, tutte le fasi delle reazioni dolorose dei miei familiari presenti, mio marito, mia madre, i miei due figli maschi adolescenti…
Così, in questo modo, la cacciata nel manicomio, rinchiusa per un mese, del tutto passiva e sopraffatta da dosi di psicofarmaci pesanti, allettata, e poi, in piedi come uno zombi, ultima degli ultimi, in un camerone assieme a decine di altre donne.
Là mi è stata comunicata la separazione matrimoniale, semplicemente e inesorabilmente, con durezza, senza nessun riguardo né per il luogo, né per la mia condizione. Mi è stata comunicata anche la perdita dei figli, di cui perdevo ogni tutela, ogni cura: loro restavano affidati al padre, con cui avrebbero continuato a convivere nella casa in cui erano nati, e da cui io venivo allontanata.
Tutto deciso sopra di me, sulla mia pelle, contro di me. Mia unica colpa, il rifugio nella follia. Una moglie e una madre folle doveva essere cacciata. E di fatto, dimessa dal manicomio, ero in strada, lasciata là, come una scarpa rotta, a riprendere faticosamente la vita.
Eppure devo a questa violenza, a questa crudeltà, la chance del recupero, del percorso tutto in salita verso uno stadio migliorativo.
Certamente il mio matrimonio era sbagliato, era un matrimonio scoppiato, nel quale avevo continuato a vivere, a sopportare, a non porre domande, a negare i miei bisogni fisici, intellettivi, spirituali, ad accettare senza condizioni e senza atti ribelli. Oggi mi chiedo come ho fatto a vivere così desolata, così deprivata, così sola…
Allora ben vengano la separazione e poi il divorzio: una via dolorosa, irreversibile verso la liberazione, verso la libertà. Sono uscita da una gabbia, nella quale ero rinchiusa e da cui non sapevo, non potevo difendermi: una gabbia di imposizioni implicite, di doveri quotidiani, di lavoro obbligato, senza mai una parola buona, un segno di affetto, un moto d’amore.
Certamente oggi riconosco la necessità di quell’azione estrema, di quello strappo dilacerante, soprattutto della perdita dei figli amatissimi.
Allora ero giovane, ancora, ma più vecchia di quanto non mi senta adesso, che conduco un’esistenza solitaria, ma dignitosa: ho rispetto di me stessa, ora; cerco di appagare i miei desideri realizzabili con poco; riconosco la necessità del benessere psico-fisico…
Questi potrebbero costituire dei traguardi esistenziali, certamente sono delle consapevolezze acquisite attraverso il dolore, la fatica, il sudore, il sacrificio, e anche o soprattutto attraverso l’esperienza di sentire le voci, che mi hanno accompagnato, mi accompagnano ancora, e sono sempre con me, in me, attorno a me.
Le voci, adesso, ancora e ancora, a volte mi fanno cadere in situazioni di follia lucida, ingovernabile fin quando non vengo presa in carico dalla sanità pubblica. Perché oggi so a chi rivolgermi, so chi mi può aiutare ad uscire da una crisi, che è sempre passaggio, che è sempre crescita: seppur devastante, deve essere esperita, attraversata, lasciata passare, come l’acqua di un fiume, come una rapida che dilaga su tutto ciò che incontra, rompe gli argini, è inarrestabile.
Il male fa parte della vita. Basta guardarsi attorno, camminando per strada, salendo su un bus, entrando in un supermarket…
È necessario accettare il male, la sofferenza, altrimenti se ne è sopraffatti.
Sentire le voci a volte per me è un’esperienza bellissima, gratificante, perché le voci sono, a volte, voci amiche, affettuose, intriganti: io cerco le voci, fanno parte della mia vita parallela, razionalità versus esperienze al limite.
E in questi quarant’anni ho rischiato più volte di morire, quando le voci maligne mi hanno ingiunto comportamenti a rischio. So che devo stare attenta, controllare il flusso delle voci, non restare succube delle voci perfide, sadiche, cattive; delle voci che mi dicono di scappare da casa, ad esempio; di non dormire; di non mangiare; di non espletare i minimi bisogni fisici esistenziali…
Sono prove estreme, affioranti in questi quarant’anni, come fiori carnivori, come costellazioni di ghiaccio, disposte come i grani di un rosario nel mio lungo cammino di vita: le ricordo tutte, ad una ad una, lucidamente, e soffro ancora atrocemente al ricordo di tanta desolazione. Ho pietà di me stessa, mi faccio compassione da sola.
Eppure oggi sono anche invidiata, nonostante tutto, invidiata…per la mia libertà, per la possibilità di poter disporre dei miei giorni senza dover renderne conto a nessuno, per una certa sicurezza materiale. Tutto conquistato con il sacrificio; niente, nessuna cosa gratuita; niente, nessuna cosa facile o scontata.
L’esperienza di sentire le voci mi tiene in vita, e molto spesso le voci le cerco, perché mi fanno compagnia, rallegrano la mia vita solitaria, parlano al mio silenzio intorno. E ho paura del domani. Ho paura di cadere ancora e ancora in balia delle voci ammaglianti che mi portano alla follia, ho paura di dover subire altre prove al limite, ho paura perché oggi non sono sicura di poterle sopportare e attraversare con le mie sole forze fisiche: sono ormai anziana, come scrivono i giornali…e il corpo è sconsolato e stanco.
Ma ringrazio le voci, tutte le voci che hanno attraversato la mia vita, quelle amiche, e anche quelle nemiche, che come gatti dispettosi e perfidi mi hanno graffiato, ferito, inferto pene dolorosissime. Le voci ora sono necessarie nelle serate, nelle lunghe serate estive e invernali, quando spenta d’un colpo la televisione, riaffiorano i ricordi. E tutto si fa più difficile.
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