di Fabrizio Starace
Ringrazio Keller per il commento all’articolo “Salute Mentale, la mappa del disagio” pubblicato nel Sole24Ore Sanità del 13 febbraio u.s. Le questioni che pone meritano a mio avviso un supplemento di riflessione. Anch’io non credo che “da quando non c’è più il manicomio c’è più gente che soffre”: sarebbe effettivamente paradossale solo immaginare un’ipotesi del genere, e non c’è bisogno di scomodare Sir Michael Marmot per affermare che l’aumento del disagio e dei problemi di salute mentale della popolazione costituisce fenomeno globale che rinvia al più ampio tema delle disuguaglianze e dei determinanti sociali. E tuttavia, chi sia genuinamente interessato a perseguire il benessere della comunità non può non interrogarsi sulla diffusione dei c.d. “disturbi psichiatrici comuni” e sulla reale capacità che il sistema di welfare ha di individuarli, comprenderli, e realizzare le migliori strategie di cura e assistenza. Consapevoli – e qui concordo ancora con l’analisi di Keller – che i cambiamenti culturali determinati dalla Legge di Riforma del 1978 (e una più generaleridefinizione dei concetti di salute e malattia) hanno determinato attesenon solo nelle persone con disturbi psichiatrici gravi, ma anche nei milioni di persone che vedono compromessa quotidianamente la propria “ricerca della felicità” da problemi d’ansia o depressione. Il problema è che tali aspettative risultano non corrisposte in larga parte del Paese!
Non è qui il caso di citare il “peso” che tali problemi rappresentano sui singoli: in termini di sofferenza personale, economici, di riduzione della qualità della vita, di compromissione del ruolo sociale e relazionale. Vorrei invece riaffermare l’importanza di considerare gli screening (o se si preferisce: le indagini di popolazione) un fondamentale strumento di conoscenza delle condizioni della comunità e della capacità di risposta che il sistema di welfare possiede. L’esempio che ho citato nell’articolo mi pare chiarificatore: scusandomi per l’auto-citazione ne riporto testualmente il contenuto (il corsivo è mio)
“Pur non essendo tout court riconducibile a un bisogno di natura sanitaria, il numero di soggetti con alta probabilità di presentare disturbi ansiosi e/o depressivi offre preziose informazioni sul grado di benessere/malessere della popolazione generale e ci consente di monitorare gli effetti sulla salute mentale di eventi e contingenze che riguardano l’intera comunità. A riprova di ciò si consideri la variazione rilevata tra … 2013 (anno in cui il Paese era attraversato in pieno dalla crisi economica) e … 2005: in quest’ultima rilevazione la prevalenza stimata era pari a 12,5% (corrispondente a 4.588.089persone della popolazione generale). In altri termini, negli anni della crisi ben 892.029 persone in più risultavano positive allo screening per problemi di salute mentale. A ciò non ha corrisposto, purtroppo, una maggiore attenzione agli interventi preventivi e di supporto cui ci richiamano le principali Agenzie sanitarie internazionali”
Le indagini di popolazione sono quanto di più democratico è possibile immaginare per comprendere la coerenza delle azioni di sistema con la domanda reale. Sono esattamente all’opposto del panopticon immaginato per garantire il controllo nelle istituzioni totali. Sono anzi lo strumento con cui i cittadini possono far sentire la loro voce, per quanto scomoda e non conformista.
La fake news dei 12 milioni di italiani che rinunciano alle cure per motivi economici ha inquietato non poco gli amministratori della salute pubblica, che si sono affrettati ad approfondire, a smentire, ad argomentare, a rilanciare sul controllo delle liste d’attesa. Nulla di tutto ciò si è verificato nel caso dei disturbi psichiatrici comuni, nessuna azione di sistema è stata programmata e tantomeno implementata. E non si tratta qui di voler “psichiatrizzare” una quota rilevante della popolazione: chi teme questo rischio credo sia influenzato dalla stessavecchia idea di psichiatria che vuole esorcizzare. Se la preoccupazione è vedere milioni di persone affrontare questi problemi affidandosi allo psicofarmaco di turno, occorre riflettere sul fatto chequesto già avviene!(v. dati AIFA), proprio a causa della scarsa attenzione che il tema riveste nell’attuale situazione di crisi dei Servizi.
Programmare e realizzare efficaci interventi di comunità per i disturbi psichiatrici comuni significa restituire alla psichiatria quella funzione di “confine” e di aggregatore tra scienze mediche, psicologiche e sociali, e agli psichiatri quelle competenze antropologiche che un neo-positivismo infelice vorrebbe relegare entro pochi circoli “elitari”.
Ascoltare la domanda di assistenza, di aiuto, cui le indagini di popolazione danno voceè anche uno degli strumenti migliori per superare certa autoreferenzialità operativa (ma soprattutto culturale) che per scelta, convenienza o necessità caratterizza ancora il mondo della salute mentale in Italia. Il confronto sulle strategie migliori per affrontare i temi posti alla nostra attenzione, quello sì potrà essere terreno di conflitto: ma esplicito, argomentato, orientato al perseguimento dell’interesse comune. Credo di questo vi sia un grande bisogno, al di là degli ecumenismi di facciata che confermano le divisioni di fatto.