Sono nata negli anni Settanta. Gli anni in cui “la legge 180 ha spento l’elettricità nei manicomi”, come dice Nicola – alias Ascanio Celestini – nel testo teatrale e nel film omonimo La pecora nera. Fino ad allora “i manicomi elettrici” erano stati la norma, erano “quelli dove tutti sembravano santi e il direttore era il più santo di tutti, uguale a Gesù Cristo”, per dirla con le parole di Celestini.“Perché la vera malattia dei bambini è la paura, i bambini hanno paura di tutto, paura dei ragni, del lupo, degli uomini neri, del buio. Così allora l’istituto, che è un manicomio elettrico, accende la luce e con la luce accesa scompaiono i mostri, i lupi e perfino i ragni diventano stupide bestie. Perché sennò si può morire per la paura del buio.”
Un’indimenticabile testimonianza sull’elettroshock è certamente quella di Alda Merini, che scrive: “ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento. […] Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo”.
Negli anni Settanta, dicevo, inizia a soffiare aria nuova. Sono gli anni dell’uscita di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di legno e cartapesta, per le vie di Trieste con al seguito Franco Basaglia e i matti di San Giovanni, in una domenica di bora del 25 febbraio 1973. Questi gli anni del processo e della condanna allo psichiatra Giorgio Coda del manicomio di Collegno a Torino, detto “l’elettricista”. Vicende terribili, raccontate dal giornalista Alberto Papuzzi nel libro Portami su quello che canta, che si concludono in un’aula di tribunale il 12 luglio 1974: ai matti viene riconosciuto forse per la prima volta al mondo il diritto di parola, in quanto vittime e testimoni, dopo anni di maltrattamenti disumani in nome della scienza.
Al riguardo ho chiesto di recente un commento a Eugenio Borgna, tra i più autorevoli psichiatri italiani, in un’intervista pubblicata sul n.ro 268 della rivista Animazione Sociale (e che a breve sarà resa disponibile anche qui sul sito del Forum Salute Mentale). Mi ha parlato di “orrore di un comportamento, quello di uno psichiatra, che ha sfregiato con inumana violenza ogni legge etica e ogni dignità; andando al di là di ogni immaginabile volontaria atrocità” e del “grande coraggio di chi si è ribellato a questa violenza, che si rispecchiava in una climax storica nella quale la sofferenza psichica veniva considerata come una condizione di vita non più degna di essere vissuta, e che poteva così essere oggetto delle più spietate e agghiaccianti sperimentazioni”. Una concezione terrificante, che si nascondeva nei modi di pensare di non pochi psichiatri italiani di un tempo che agivano come se la vita dei pazienti psichici non contasse assolutamente nulla.
“Io non ho mai eseguito elettroshock in vita mia, e non ho mai consentito che si facessero elettroshock”, ha ribadito Borgna. “Non ne tollero la violenza che è divenuta del tutto inutile da quando sono entrati in commercio gli psicofarmaci, indispensabili nella cura delle esperienze psicotiche e delle esperienze depressive, benché a loro volta, oggi con particolare frequenza, siano somministrati al di fuori di ogni contesto psicoterapeutico”. Ma, come è noto, in alcune cliniche universitarie, e in alcune case di cura, gli elettroshock continuano a essere praticati sia pure in anestesia generale: “ignorando l’immensa negativa risonanza emozionale che l’esserne stati sottoposti desta nella psicologia di un paziente, che rivivrà la cosa come il sigillo di una irrimediabile malattia psichica”, ha precisato Borgna.
Si potrebbe aprire un dibattito infinito sulla presunta validità scientifica di questa “terapia”. Mi limito piuttosto a ricordare che, oltre quarant’anni fa, è stata messa in discussione senza mezzi termini dallo stesso Franco Basaglia secondo cui “curare un paziente psichiatrico con l’elettroshock è come prendere a pugni un televisore per regolarne la frequenza”. Pensate allora che davvero si possano risolvere problemi estremamente delicati come il «male di vivere» di una persona, dovuto per esempio ai conflitti familiari, alle difficoltà relazionali, alla perdita della casa o del lavoro, dandogli una botta in testa?
Rubando parole al testo teatrale Il Dialogo di Marco Cavallo e il Drago di Montelupo, chi vive l’esperienza della sofferenza mentale “non è un oggetto da rinchiudere, legare, torturare con l’elettroshock e intossicare con farmaci in dosi da cavallo”. Ma è una persona, e credo che il rispetto di questa in quanto tale abbia bisogno di ben altro tipo di “illuminate” teorie.