di Dario Stefano Dell’Aquila (Antigone Campania)
Il 5 gennaio un ragazzo di 32 anni si è tolto la vita nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, una terra di mezzo che ha la forma del carcere e la sostanza del manicomio. Il suo nome era Massimo, originario della provincia di Roma. Sofferente psichico, era entrato nel circuito penale a seguito di una denuncia per maltrattamenti familiari.
Sottoposto a quella che tecnicamente si chiama “misura di sicurezza provvisoria” ha fatto il suo ingresso da vivo nell’Opg di Aversa a luglio dello scorso anno. Si è tolto la vita, nel primo pomeriggio, senza che nessuno se ne accorgesse, in un luogo teoricamente sottoposto a un doppio regime, sanitario e penitenziario.
Sulla vicenda la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo, il che significa, almeno, che ci saranno indagini approfondite per comprendere la dinamica di questa morte. Ma non è delle responsabilità penali che voglio dire, bensì di quelle istituzionali. La storia di Massimo merita qualche parola in più.
Proveniente da un contesto familiare difficile, sofferente di un disagio psichico e consumatore di sostanze, condizione che i tecnici definiscono di “doppia diagnosi”, Massimo è stato denunciato dalla mamma, perché era diventato aggressivo e lei ne aveva timore. Vorrei rendere con sobrietà le parole della madre che mi ha telefonato per raccontarmi con parole semplici cose molto dolorose. Vorrei saper raccontare di una madre alla quale non è stato detto come il figlio era morto, ma che ha ricevuto solo la comunicazione della notizia del decesso.
Solo con l’aiuto della volontaria che la segue e grazie a Internet ha avuto modo di scoprire il risvolto doppiamente tragico della vicenda. Vorrei saper raccontare di una donna, vedova, che vive solo della sua pensione sociale e dell’aiuto che le danno i volontari della sua parrocchia, che candidamente mi dice “pensavo che era un ospedale, che ne sapevo che era un manicomio”.
Così come non poteva sapere che il figlio sarebbe finito a duecento chilometri di distanza, che per andarlo a trovare ogni settimana, se non ti danno un aiuto, spendi tutti i soldi della pensione. Ma “io mio figlio sono andato a trovarlo a dicembre”, mi ha detto, “non è vero che l’ho abbandonato come hanno detto”. Ancora ieri era alla ricerca di un aiuto dai servizi sociali del suo Comune, perché anche per il solo rientro della salma le sono stati chiesti milleduecento euro.
Ma questa storia non è figlia del caso, né di un destino cinico e baro. Perché questo è il diciottesimo uomo che muore, nel giro di pochi anni in questa struttura. Morti e suicidi sui quali abbiamo sempre cercato che cadesse un implacabile velo di silenzio. Pagando il dazio di essere considerati ideologici e, alla meglio, velleitari idealisti, per anni abbiamo raccontato cosa era quel posto, cosa erano i manicomi giudiziari in Italia e in Campania.
Sembrava che tutto fosse destinato all’attenzione di pochi animi sensibili. E invece, a seguito delle denunce e delle segnalazioni, il Comitato per la prevenzione della tortura, organismo del Consiglio di Europa, si è recato in visita ispettiva nell’Opg di Aversa. E a leggere il loro rapporto abbiamo trovato l’autorevole riscontro alle nostre parole. Struttura sudicia, abuso dei mezzi di contenzione, assenza di trattamenti terapeutici, condizioni inumane e degradanti, isolamento prolungato, condizioni igieniche indecenti.
Quando il rapporto, redatto nel 2008, fu reso pubblico lo scorso anno si disse che ora la situazione era cambiata. Va dato merito alla commissione parlamentare di inchiesta sul sistema sanitario, presieduta da Ignazio Marino, che ha effettuato visite ispettive nel manicomio giudiziario, accompagnato dai Nas, e che ha rilevato condizioni delle celle e dei reparti definiti, letteralmente, “disumani”. Questa disumanità continua a generare vittime, nei miei personali conti, almeno tre negli ultimi sei mesi, senza che nessuno ne risponda.
Questo fine settimana il Forum salute mentale si riunirà in due giorni di studi e seminari, per individuare strategie per il superamento di questo orrore manicomiale. Ciò è senz’altro indispensabile, ma nell’esatta misura in cui desideriamo un futuro diverso, dobbiamo essere in grado di guardare al presente di vittime e di morti che ci chiedono giustizia.
da La Repubblica, 15 gennaio 2011